Jacopo da Sant’Andrea: un monselicense all’inferno dantesco

La fuga di Lano da Siena e Jacopo da Sant'Andrea nella selva dei suicidi in un'incisione di Gustave Doré

Roberto Valandro per ricordare il centenario dantesco ha realizzato un video per ricordare il monselicense Jacopo da Sant’Andrea inserito nel XIII canto dell’Inferno tra i suicidi e gli scialacquatori. Jacopo era figlio di Olderico Fontana da Monselice e di Speronella Dalesmanni, personaggi ricordati anche nella giostra della Rocca, in breve la sua triste storia personale tratta da wikipedia.

Jacopo da Sant’Andrea possedeva alcune nel comune di Mira contese anche dall’Abbazia di Sant’Ilario così, in un atto notarile del 1215, risulta che Jacopo sottoscrisse una transazione con i frati benedettini a seguito di un contenzioso. Dal documento risulta che, in cambio di un canone di “10 lire e 5 libre di incenso all’anno”, Jacopo cedeva la giurisdizione e diritti su pascoli, tagli d’erba e animali da cortile. Perdeva inoltre i diritti di alloggio per sé e per la sua corte a spese degli abitanti, in particolare sulle località di Aurilia, Arzere, Boltene, Oriago, Borbiago, Pianiga, Trescevoli (attualmente località del comune di Mira), Pladano, Vigna, Pionca (Vigonza) e Vetrego (Mirano).

Nel 1216 fu protagonista di un’altra complessa questione patrimoniale. In quell’anno aveva venduto la curia di Sant’Andrea a Giacomo da Camposampiero, il cui padre, Tiso VI, era stato suo mallevadore per un debito contratto nel 1212 con il vescovo e l’arciprete di Padova.

Jacopo tentò in tutti i modi di rientrare in possesso del feudo: dapprima (1230), alleatosi ad altri magnati padovani, cercò di attentare alla vita di Tiso, fallendo; quindi (1232) si accordò con Jacopo Corrado, vescovo di Padova, perché ricorresse alle vie legali adducendo che la curia di sant’Andrea era stata alienata indebitamente, essendo essa un feudo del vescovado.

La questione si protrasse anche dopo la morte di Tiso (1234): nel 1236 i giudici davano ragione ai Camposampiero, ma il vescovo non accettò la sentenza e si rivolse a Federico II, il quale a sua volta delegò la causa di appello ad Ezzelino da Romano (peraltro acerrimo nemico dei Camposampiero). Non è chiaro come si risolse la sentenza; esiste tuttavia un documento non datato con il quale Tiso VII, figlio di Tiso VI, vendeva la curia – evidentemente ancora in suo possesso – a Olderico Cattaneo di Tergola.

La prodigalità di Jacopo era ancora molto nota ai tempi di Dante. I suoi commentatori riferiscono numerosi aneddoti legati a ciò: per esempio, durante una gita in barca sul Brenta si divertì a svuotare nell’acqua una borsa piena di monete; ancora, fece incendiare la sua villa per il solo desiderio di vedere un grande fuoco.

Nella selva dei suicidi, Jacopo fugge con Lano da Siena incalzato da nere cagne. Mancandogli il fiato, cerca riparo in un cespuglio, ma viene raggiunto dalle fiere e sbranato. L’arbusto stesso – che è in realtà un suicida fiorentino – è gravemente danneggiato e, nel suo lamento, identifica lo scialacquatore.

««O Giacomo» dicea «da Santo Andrea, / che t’è giovato di me fare schermo? / che colpa ho io della tua vita rea?»» (Dante Alighieri – Inferno, Canto XIII, vv. 133-135)


 
 

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