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Preti e suore di Monselice (1900-1990)

Monsignor Cerato, è stato il costruttore del Duomo di Monselice

ABATI, PRETI, SUORE E PARROCCHIE DI MONSELICE DAL 1900 AL 1990

di Giuseppe Trevisan

Tratto dall’opuscolo di Giuseppe Trevisan Z I B A L D O N E delle chiese e dei relativi operatori Secoli XIX – XX Monselice, maggio 2009 (Disponibile qui in formato PDF, ( 50 MB)   www.ossicella.it/archiviowordpress/restauri_monselice_trevisan.pdf

 

                                 I N D I C E

Cap. 1 – Formazione delle parrocchie monselicensi nel ‘900
1.1 La parrocchia di Santa Giustina fra le due guerre
1.2 Il rinnovamento dopo la seconda guerra mondiale

Cap. 2 – La parrocchia di Marendole del 1803

Cap. 3 – Le nuove parrocchie nel 1919
3.1 Santa Giustina
3.2 Monticelli
3.3 San Bortolo
3.4 San Cosma
3.5 Ca’ Oddo

Cap. 4 – Costituzione delle ultime parrocchie degli anni ‘60
4.1 Santa Maria del Carmine
4.2 San Giacomo
4.3 Santissimo Redentore

Cap. 5 – I sacerdoti che operarono a Monselice nel secolo scorso
5.5 Elenco abati mitrati dal 1844 al 2009
5.2 Profili di sacerdoti operanti in Monselice nel ‘900
5.2.1 Monsignor Luigi Gnata arciprete (1920 – 1945)
5.2.2 Monsignor Basilio Mingardo (1858 – 1946)
5.2.3 Don Luigi Gatto (1832- 1919 )
5.2.4 Monsignor Angelo Cerato arciprete (1946- 1971)

Cap. 6 – Le suore monselicensi
6.1 Le Sorelle della Misericordia di Verona
6.2 Piccole Ancelle del Sacro Cuore

Cap. 7 – Storia San Sabino (Santo protettore di Monselice)

Capitolo 1

Formazione delle parrocchie monselicensi nel ‘900

Per fare una cronologia, sia pure a grandi linee, delle attuali parrocchie di Monselice, ritengo utile risalire alla fine della Repubblica Veneta, quando nel 1797 Napoleone portò anche in Italia le idee della rivoluzione francese. Napoleone, imperatore dei Francesi, nel 1810 soppresse anche da noi, oltre ai vari conventi, anche la collegiata abbaziale di Santa Giustina, con le relative mansionerie, cappellanerie e canonicati; creando forte contrarietà e rammarico specie per la collegiata, perché essa rappresentava un antichissimo titolo di nobiltà.
Dopo gli assestamenti avvenuti durante il governo austriaco, succeduto a quello francese, nel 1844 il vescovo di Padova nominò arciprete del duomo di Santa Giustina di Monselice mons. Evangelista De Piero, assegnandogli, a ricordo dei vecchi ordinamenti della Collegiata, il titolo aggiunto di “Abate Mitrato”. In quel tempo nel comune, oltre la grande parrocchia del centro cittadino facente capo al Duomo, ve ne erano altre quattro che raggruppavano gli abitanti del contado. Di queste ultime soltanto Marendole, eretta a parrocchia nel 1803, aveva nella frazione la canonica e la chiesa,intitolata a San Nicola di Bari. Le altre zone del contado, San Bortolo, San Cosma, Ca’ Oddo e Monticelli erano per antica tradizione curazie affidate alle parrocchie del centro e cioè quelle di Santa Giustina, di San Martino, San Tommaso Apostolo e San Paolo. Durante il lungo ministero di Mons. De Piero, 1844-1898, cominciò ad evidenziarsi il problema della ubicazione delle chiese parrocchiali nelle frazioni, mentre per il centro si sentiva la necessità di costruire in piano il nuovo duomo di Santa Giustina.
Queste nuove idee provocarono discussioni, ricerche e la formulazione di qualche progetto, ma soprattutto accesero polemiche e lunghe diatribe, tanto che occorsero molti anni per risolvere tutti i problemi. Il primo tentativo è stato quello di ampliare San Paolo, per avere al piano una chiesa capiente nel centro. L’ingegnere architetto Lorenzo Polettini, con un progetto di ispirazione tardo- classica, propose un grosso ampliamento della chiesa; il progetto è senza data, però dall’impostazione stilistica e dalla grafia delle didascalie, si può ipotizzare che sia del 1880. Questa proposta non ebbe seguito e fu presto dimenticata. Per molti anni il progetto di ampliamento di San Paolo rimase ignorato, ritornò alla luce varie decine di anni dopo, illustrato da quattro fotografie -tipo cartolina- che riportano la pianta, la sezione, la facciata e il fianco del progetto. L’ampliamento di San Paolo riguardava la creazione della terza navata a destra, l’allungamento verso il retro del presbiterio, l’avanzamento della facciata di un terzo rispetto alla navata attuale, con la creazione anche di un vestibolo a colonnato e di uno scalone di accesso con due inviti posti ai lati.
Datando il progetto al 1880 ci si può porre una domanda: considerando che già in quegli anni si sentiva il bisogno di una chiesa capiente al piano, perché è nato quel progetto di San Paolo e non uno in un altro luogo, considerato anche che già nel 1857 il Comune aveva costruito proprio sul terrapieno il nuovo municipio addossato alla chiesa? Il municipio, ora abbattuto, era un fabbricato a palazzetto veneto abbastanza ampio, con due piani e soffitta e una aggiunta di tre negozi posti nella differenza di quota tra la strada e la pavimentazione del terrapieno. Il progetto Polettini fu una provocazione o vi erano degli accordi verbali con l’autorità comunale? Rimane da capire perché quel progetto non fu reso pubblico, chi sia oggi il possessore delle tavole originali del disegno e perché e quante fotografie furono stampate, tenendo conto che le foto, in rapporto alla loro qualità e conservazione, devono essere state scattate all’inizio del secolo XX. Dal 1898 al 1908 fu arciprete e secondo abate mitrato mons. Giuseppe Todeschini. Durante il suo ministero il problema delle chiese esplose creando fazioni contrapposte, così l’arciprete, constatato che non riusciva a trovare un accordo, diede le dimissioni.

Il vescovo Luigi Pellizzo pensò di placare gli animi e trovare la soluzione nominando come “vicario capitolare ad acta”, cioè un uomo sopra le parti, il parroco di Stanghella mons. Callegaro. Questi rimase a Monselice circa tre anni, ma non riuscì a ricucire gli strappi tra le fazioni, così diede pure lui le dimissioni. Allora monsignor Pellizzo, fate le debite considerazioni, ritenne opportuno nominare arciprete e terzo abate mitrato il parroco officiante nella chiesa di San Paolo, capo di un gruppo particolarmente agguerrito, nella speranza che responsabilizzandolo avrebbe cercato di trovare soluzioni soddisfacenti. Infatti il nuovo arciprete Pietro Prevedello, che svolse il proprio ministero dal 1912 al 1919, si adoperò per risolvere il problema del nuovo duomo, lasciando da parte quello di creare le parrocchie nelle frazioni. Scandagliando tutto il centro, egli fermò sulle prime la sua attenzione nella villa Tortorini, che però scartò per le troppe difficoltà tecniche e burocratiche ch’essa presentava. Così pensò all’ex chiesa di Santo Stefano, di proprietà comunale e usata come magazzino, che dava garanzie di fattibilità. Sopraggiunta però la prima guerra mondiale ogni programma fu sospeso e rimandato a tempi migliori.

Al termine della guerra il vescovo Pellizzo, ritenendo che per Monselice la questione principale fosse quella delle parrocchie frazionali, emanò il 15 aprile 1919 un decreto che sopprimeva le quattro parrocchie cittadine, erigendo nel contempo una sola parrocchia al centro, denominata “Parrocchia urbana di Santa Giustina” e altre quattro parrocchie nei più popolosi agglomerati del contado. Così si ebbero le seguenti parrocchie: Monticelli con patrono San Carlo Borromeo, San Bortolo con patrono San Bartolomeo, Ca’ Oddo con patrono Sant’Antonio da Padova, San Cosma con patroni i santi Cosma e Damiano, nominando nel contempo parroci coloro che già vi esercitavano il loro ministero. Dopo questa presa di posizione vescovile, subito le frazioni guidate dai loro pastori iniziarono a organizzarsi per la costruzione nel loro territorio delle nuove chiese e canoniche, mentre l’arciprete di Santa Giustina, cui sarebbe rimasto il compito di portare il duomo al piano, dette le dimissioni. Il Vescovo nominò allora come quarto abate mitrato nel 1920 mons. Luigi Gnata, parroco di Galzignano, a cui fu dato il compito di accentrare la grande parrocchia cittadina in pianura.

Luigi Pellizzo. Vescovo di Padova. Il 15 aprile 1919 suddivise il territorio in cinque parrocchie autonome: Duomo, Monticelli, San Cosma, San Bortolo e Ca’ Oddo; riconfermando quella di Marendole che era parrocchia autonoma dal 1803.
1.1 La parrocchia di Santa Giustina fra le due guerre mondiali del XX secolo

Monsignor Luigi Gnata subito si mise all’opera per la scelta dell’ubicazione del nuovo duomo. Dopo varie ricerche alla fine ripercorse il cammino del suo predecessore, fermandosi anche lui nell’ex chiesa di Santo Stefano. Erano stati vagliati ancora una volta due luoghi: villa Tortorini e l’ex chiesa di Santo Stefano. La zona Tortorini fu riesaminata con molta attenzione e scartata per le stesse precedenti motivazioni con altre aggravanti. Infatti nel medioevo di là passava il vallo della cinta muraria (vedi i resti di una torre nel piazzale della Vittoria) che era stato tombato con detriti che non offrivano solidità per fondazioni normali. Questo motivo di precarietà fu aumentato dalla psicosi di dover trovare per il costruendo duomo un terreno compatto, perché in quei tempi una chiesa della diocesi era andata in rovina essendo il terreno di base incoerente. Un’altra difficoltà dipendeva dal fatto che la zona era proprietà privata di un ente benefico e quindi di difficile acquisizione. Inoltre c’era il desiderio di molti monselicensi di creare in quel luogo un parco con monumento a ricordo dei caduti della grande guerra, tanto che il sindaco nel 1924 commissionò l’opera allo scultore concittadino Boldrin che scolpì per il “monumento” l’attuale gruppo marmoreo nel giardino del municipio.
Rimase così solo l’ex chiesa di Santo Stefano e fu dato all’arch. Contarello l’incarico del restauro. Il progetto prevedeva una ristrutturazione a tre navate in stile tardo romanico. La navata centrale dell’ex chiesa di Santo Stefano, di stile romanico, era stata usata dapprima dai monaci domenicani, che lì vicino avevano il convento, ora case di abitazione su via Santo Stefano Superiore e via M. Carboni, poi dalla congregazione del Santo Rosario. Nel milleseicento la chiesa fu ampliata da due navate laterali, come si vede guardando la facciata. Già nella seconda metà del diciottesimo secolo, cessata la confraternita, la chiesa e i vari fabbricati ad essa attinenti erano passati in proprietà del demanio veneziano, poi di quello francese e infine di quello austriaco. All’inizio del 1800 la parte del convento di via Santo Stefano Superiore fu venduta a privati, mentre il campanile, l’abitazione dei canonici di via Carboni e la vicina chiesa di san Luigi, che era la scuola annessa a Santo Stefano, passarono alla parrocchia di Santa Giustina. La chiesa di Santo Stefano, rimasta al demanio prima francese e poi austriaco, fu usata come ricovero di reparti di cavalleria. Con l’unità d’Italia l’ex Santo Stefano passò al demanio italiano che cedette gratuitamente l’immobile a quello comunale di Monselice.

Il Salomonio nel suo “Agri Patavini inscriptiones sacrae et prophanae, F. Jacobi Salomonii, Padova 1696” enumerava all’interno di Santo Stefano ben trenta lapidi, soprattutto tombali, segno dell’importanza che la chiesa godeva presso i fedeli. La chiesa fu spogliata dagli eserciti francesi e austriaci che passarono di qui. Questi esumarono i cadaveri e tolsero gli altari per abbassare il pavimento fino alla quota della strada onde ottenere un facile accesso per i carriaggi, come si può constatare dai segni delle vecchie pavimentazioni. Tutti gli ornamenti marmorei furono dispersi, fuorché una piccola parte dell’altare maggiore ammucchiata per molti decenni in un angolo del presbiterio. Quei marmi furono recuperati nel 1949 e usati nel sottochiesa del duomo nuovo nel 1956. Il progetto dell’architetto Contarello fu fatto conoscere con cartoline, una con la facciata e un’altra con l’interno, usate per promuovere le offerte dei fedeli avvicinati in maniera capillare da molti volonterosi distribuiti su tutto il territorio della parrocchia.
Il nuovo vescovo Elia dalla Costa, l’otto luglio 1928, inviava al foglio parrocchiale “La Rocca” una lettera autografa in cui raccomandava ai Monselicensi di fare offerte per il restauro di Santo Stefano dicendo testualmente “[…] perché così, in breve volgere di tempo, alla bella cittadina sia dato un duomo rispondente alle esigenze dell’arte e della pietà dei fedeli.”
La sorte però scelse un altro corso. Il duomo di santa Giustina presentava gravi segni di degrado e così, alla fine degli anni venti, sotto la guida della Soprintendenza ai Monumenti, fu posto mano ai lavori di consolidamento. La Soprintendenza chiese e ottenne dal parroco mons. Gnata di estendere i lavori anche alla demolizione delle superfetazioni, eliminando cioè i lavori fatti in tempi successivi e senza valore artistico, per riportare il duomo alla purezza dello stile romanico del 1200, adducendo verbalmente la convinzione che lo Stato Italiano, a lavori finiti, avrebbe rimborsato le spese. I lavori supplementari furono principalmente la demolizione del soffitto, con conseguente grosso restauro delle travature che rimasero a vista, poi l’eliminazione della cappella a sinistra che penetrava nelle sede stradale di via del Santuario, ove ancora oggi si vedono i vari rifacimenti della muratura per la chiusura dell’arco. La ghiera di marmo rosa che contornava l’arco, con i conci leggermente incisi, attualmente si trova dimenticata nel cortile interno della canonica del duomo vecchio. Per quanto riguarda l’aspetto economico dei costi purtroppo poco dopo vi fu la concomitanza di una crisi economica, dovuta sia al fallimento della banca presso la quale erano depositate le offerte, sia alla latitanza dello Stato che non fece alcun rimborso. Così la grossa spesa sostenuta per il restauro non solo prosciugò le poche offerte salvate dal fallimento, ma lasciò anche dei debiti che la parrocchia dovette pagare poi con grandi sacrifici. Tutto questo creò scompiglio e scoramento tanto da far sospendere già in prima battuta l’iniziativa del nuovo tempio, per abbandonarla del tutto poi con l’arrivo delle guerre, prima quella di Abissinia del 1935 e poi la seconda guerra mondiale.
Alla morte di mons. Gnata, nel settembre 1945, il vescovo Carlo Agostini nominò vicario il cappellano don Palmiro Stefani, che resse la parrocchia per un anno, perché il Vescovo trovò riluttanza tra il clero diocesano nell’accettare la sede arcipretale di Monselice, dati i molti problemi che allora presentava: costruzione del nuovo duomo, eliminazione dei riparti e delle varie canoniche, probabile creazione di altre parrocchie. Qui è da precisare che da mons. Gnata erano stati creati per comodità organizzativa tre riparti diretti da tre cappellani: uno presso il patronato maschile di proprietà parrocchiale dove attualmente c’è il duomo nuovo, un altro a San Paolo con la canonica adiacente, ma questa di proprietà comunale, il terzo infine a San Martino con la canonica nell’attuale civico 23 di via Antonio Tassello, che era di proprietà parrocchiale. Durante la guerra questo organigramma si dimostrò dispersivo: era necessario riunire il tutto in un unico luogo.

1.2 Il rinnovamento dopo la seconda guerra mondiale

Il vescovo Carlo Agostini nominò arciprete e quinto abate mitrato monsignor Angelo Cerato già arciprete di Legnaro. A lui fu dato l’onere di costruire il nuovo duomo e di accorpare le varie cappellanie riunendo i sacerdoti in una sola canonica.
In quei tempi era diffusa, almeno nella nostra diocesi, l’idea che il duomo doveva sovrastare le altre chiese della parrocchia per essere la “cittadella della fede”. Fu così calcolato che il nuovo duomo, in rapporto alla vastità sia della parrocchia, che aveva un numero di fedeli doppio rispetto all’attuale, sia della città per quando si celebravano grandi feste comunitarie, dovesse avere una superficie di mille metri quadrati per contenere fino a tremila fedeli.
In base a questo principio Santo Stefano venne subito scartato, perché considerato troppo piccolo e poco imponente, e la scelta cadde sull’immobile del patronato di San Sabino, di proprietà parrocchiale, il quale, posto in posizione centrale tra via Cadorna e via Garibaldi, aveva una superficie sufficiente e offriva anche la possibilità di ampliamento con l’acquisto di terreni contigui coltivati a orti.
Mons. Cerato chiese alla Curia padovana l’indicazione di un progettista valido ed ebbe da mons. Barzon, noto storico dell’arte, il nome dell’ingegnere Giovanbattista Rizzo di Padova, ma noto anche a Monselice per aver curato, prima della guerra, l’ampliamento e i restauri dell’Ospedale civile, del quale era stato segretario generale per molti anni Celso Carturan, la cui unica figlia aveva sposato il Rizzo. Questa specie di nepotismo non deve meravigliare perché, per amore di verità, occorre riconoscere che Monselice doveva molto al Carturan, in quanto furono la sua correttezza, la sua capacità e la sua costanza a far nascere l’Ospedale. Pertanto la collettività aveva lasciato libero campo al segretario generale per ogni decisione, conoscendo ed apprezzando le sue grandi doti. In aggiunta poi posso dire che l’ing. Rizzo aveva già lavorato nell’ambito ecclesiastico dove era conosciuto e stimato.
Il progettista, fatte le debite ricerche, presentò la planimetria generale del terreno disponibile con l’indicazione di massima dell’ubicazione della chiesa e della canonica, ponendo l’asse del duomo sulla diagonale del quadrilatero dell’intera proprietà. Accettata questa soluzione l’ingegnere progettò la cripta sottocoro e subito dopo la canonica, tutte e due concepite con largo respiro, la prima da usare provvisoriamente come chiesa, la seconda per raccogliere tutto il clero locale.
La prima pietra del sottocoro venne benedetta dal vescovo Carlo Agostini l’otto settembre 1947 e il successivo otto settembre 1948 la chiesa provvisoria, anche se completata in modo spartano, era già agibile perché erano stati installati l’altare maggiore con le relative balaustre e altri due altari laterali prelevati dalle chiese dismesse. Subito dopo iniziarono i lavori della canonica anch’essa costruita badando all’essenziale. Esattamente un anno dopo, l’otto settembre 1949, era finita. Passato l’inverno i sacerdoti si insediarono nella nuova casa canonica. Mons. Girolamo Bortignon, successore del vescovo Agostini nominato Patriarca di Venezia, benedì la cripta sottocoro e la canonica il dieci settembre 1950.
A questo punto si evidenziarono due problemi: uno economico e uno progettuale. Mons. Cerato, avendo dato fondo ai risparmi e alle generose offerte di privati ed enti, dovette cominciare a vendere le proprietà del cosiddetto beneficio parrocchiale e tutto ciò che era vendibile senza intaccare il patrimonio culturale. Le vendite si prolungarono poi nel tempo a seconda dei lavori fino all’esaurimento di ogni fonte di ricavo.
Si ritiene utile dare conto di quanto fu venduto per non creare malintesi. Le proprietà rurali erano formate da alcune “cesure” situate nel territorio di Monselice, meno una proprio in centro tra via Carrubbio e via Ghiacciaia che mons. Cerato non poté alienare perché gravata da enfiteusi, cioè dal vincolo di un affitto perpetuo senza possibilità di disdetta. Le proprietà edili vendute furono la canonica di S. Stefano con l’annesso appartamento in via M. Carboni, la canonica di S. Martino in via Tassello, la casa del sagrestano di S. Martino nella via omonima, un piccolo condominio di quattro appartamenti in via Carrubbio, l’abitazione del rettore delle Sette Chiese vicino alla porta romana. Furono vendute anche le chiese dismesse di S. Paolo, della Buona Morte, di S. Biagio e dei Carmini, con tutti i banchi di noce, i banconi delle sacrestie di S. Martino e di S. Paolo, alcuni oggetti non più usati nella liturgia e infine l’altare maggiore di S. Paolo. Non furono vendute tele ed altri oggetti sacri regalati in parte alle nuove parrocchie.
Per pagare i debiti non furono sufficienti le vendite che azzerarono le proprietà della parrocchia, ma vi furono numerose e generose offerte di fedeli ed enti. Non fu creata una rete di raccoglitori, come aveva fatto mons. Gnata, ma l’Arciprete finalizzò al nuovo duomo tutte le offerte dei matrimoni, delle visite alle famiglie, eccetera ed ebbe la costanza di questuare personalmente, quando non era celebrante, in ogni solennità e in ogni messa, perché riteneva che con lui i fedeli fossero più generosi. Il secondo problema sorse quando l’ing. Rizzo si ammalò tanto da dover abbandonare ogni incarico progettuale. Considerando che la chiesa in quel tempo era stata solo abbozzata, divenne necessario scegliere un altro progettista. Mons. Cerato ricorse allora al consiglio del cardinale Celso Costantini, notissimo studioso friulano di storia dell’arte, a capo del dicastero vaticano preposto ai beni culturali. Questi lo indirizzò all’Angelicum di Milano, precisando che era un organismo ecclesiastico specializzato nella progettazione di chiese e opere parrocchiali. A questo ente mons. Cerato fornì precisazioni sulle necessità ambientali e sugli intendimenti della curia padovana. Dopo qualche mese l’Angelicum avvisò che aveva preparato delle proposte; fu così che accompagnai l’arciprete a Milano. Il nostro interlocutore, un sacerdote architetto, mostrò vari progetti, alcuni dei quali già in fase di realizzazione, sforzandosi nel contempo, con una lunga e serrata discussione, di precisare che era passato il tempo delle chiese imponenti ed era il momento di costruire chiese con capacità massima di mille persone, perché le chiese dovevano essere sul territorio, là dove nascevano i nuovi agglomerati urbani.
Visto che mons. Cerato rimase fermo nella propria idea di un duomo imponente, il sacerdote progettista lo invitò ad approfondire l’argomento con il suo referente mons. Costantini. L’arciprete Cerato accolse di buon grado il consiglio e riuscì a fermare il cardinale a Monselice durante un viaggio nel Veneto per l’inaugurazione di una mostra di arte sacra. Fu in quella occasione che il cardinale uscì con una frase che poi venne ripetuta tante volte dall’arciprete: “Là c’è il Montericco, in mezzo la Rocca, qui bisogna fare il monte della Fede” e nel contempo consigliò quali nuovi progettisti Vincenzo Bonato di Padova, noto per il rifacimento della facciata monumentale del duomo di Asiago distrutta dalle cannonate austriache e per il progetto della chiesa di Stoccaredo e l’ingegner Stanislao Ceschi di Padova, noto nell’ambiente religioso, chiedendo contemporaneamente di visionare lui stesso il progetto di massima. I due professionisti accettarono l’incarico e si misero all’opera aiutati, nella stesura del progetto, dall’architetto Valentino Bonato, figlio di Vincenzo. Il progetto venne sottoposto al giudizio di mons. Costantini che lo approvò parzialmente, consigliando delle varianti. Intanto, Vincenzo Bonato si era ritirato per l’età e motivi di salute; così rimasero il figlio Valentino e l’ingegner Ceschi. Poco dopo si ritirò anche l’ing. Ceschi sia per gli impegni politici, era parlamentare e membro della segreteria della DC, ma soprattutto perché, così mi confidò, non condivideva le proposte del giovane Bonato. Pertanto, la progettazione del duomo di Monselice fu fatta solo dall’arch. Valentino Bonato.
Nel frattempo mons. Cerato provvide a far eseguire altre due opere. Nel 1952, senza un progetto definitivo, venne costruita la base del campanile per il concerto delle campane, per il quale venne chiamata la fabbrica padovana Colbacchini. Questa ditta approntò un concerto gradevole usando anche tutti i bronzi che l’arciprete aveva recuperato dalle varie chiese di Monselice, dove aveva lasciato le campane indispensabili. Erano parecchi bronzi tra cui il campanone di S. Giustina fessuratosi durante la guerra. Mons. Cerato ritenne necessario un campanile, sia pure provvisorio, per dare un segnale di compiutezza alle opere già eseguite chiesa-sottocoro, canonica e per fornire anche un forte richiamo ai fedeli. Il secondo poderoso lavoro fu la costruzione al grezzo del patronato e della sala. Essendosi finalmente sbloccato l’acquisto dei terreni perimetrali all’ex patronato di San Sabino, posti in via Carrubbio e in via Barilan, fu possibile por mano ai nuovi edifici a partire dal primo maggio 1954 fino al 18 giugno 1955 e fu costruito il patronato “Immacolata” con uffici, bar, mensa, casa del custode e palestra. L’edificio fu completato e reso funzionante in ogni sua parte con lavori saltuari fino al 1960. Intanto l’architetto Valentino Bonato aveva presentato alla commissione d’arte sacra della diocesi di Padova il progetto del nuovo duomo che fu subito approvato. Il giorno otto ottobre 1955 il vescovo di Padova Girolamo Bortignon benedisse la pietra angolare della nuova chiesa, facendo nel contempo un cospicuo prestito. I lavori procedettero alacremente tanto che, esattamente un anno dopo, era terminata la cripta sottochiesa e si erano già iniziate le murature della chiesa soprastante. In questa cripta poi venne costruito un altare il cui nucleo derivava da quello di Santo Stefano, mentre il restante era recuperato dalle chiese dismesse, comprese due statue che erano ai lati dell’altare maggiore della chiesa di S. Tommaso.
Per completare l’altare fu costruito un fondale di muratura lavorato a drappo davanti al quale fu collocata la Madonna del Pomo, statua policroma prelevata da San Tommaso. Questo lavoro fu eseguito senza un disegno specifico dalla sensibile e abile manualità del capo operai Baldassare Gusella, ora defunto più che centenario, che seppe dare forma armonica a tutto quel materiale raccogliticcio.
I lavori del duomo proseguirono velocemente tanto che l’otto settembre 1957 il vescovo Bortignon benedisse il duomo intitolato a san Giuseppe Artigiano completo delle sue parti essenziali. Le funzioni religiose, che nel frattempo erano passate dal sottocoro al sottochiesa, furono trasferite infine nel duomo. Però per alcuni anni il duomo non venne usato d’inverno, perché mancava il riscaldamento; così nella stagione fredda si ritornava nel sottochiesa riscaldato a termosifone. Costruito il riscaldamento a pavimento si ritornò in duomo per sempre. Subito la chiesa fu abbellita
con statue e quadri ricavati da quelle dismesse. L’arciprete continuò la sua opera di abbellimento con la statua di san Giuseppe Artigiano dello Strazzabosco posta nel transetto a sinistra e con il grande crocefisso dell’altare maggiore, sempre dello Strazzabosco. Fece poi installare la grande vetrata triangolare istoriata, dedicata a San Giuseppe, sopra la porta maggiore e infine la Via Crucis acquistata a Padova. L’abbellimento del duomo nuovo suscitò all’inizio l’interessamento di varie persone. Io e altri amatori costituimmo il gruppo “Comitato per la salvaguardia delle opere di Monselice” con il quale si riuscì a far restaurare dal prof. Lazzarin di Padova alcun tele danneggiate. Il comitato ebbe vita breve, però riuscì a recuperare le tele che ora si trovano nel transetto di sinistra e altre due che sono in canonica.
Vi fu anche l’offerta di una statua lignea antica di sant’ Antonio da parte delle due sorelle Canoso che allora avevano chiuso il loro piccolo albergo “Rocca”, vicino alla “Posta vecia” in via “28 Aprile”, dove la statua faceva bella mostra di sè nell’entrata. Esse raccontarono che la statua era loro pervenuta dagli avi che a loro volta l’avevano avuta in dono quando la chiesa di S. Francesco, vicina alla loro proprietà e poco discosta dall’attuale Carmelo di via S.Biagio, fu abbattuta nel 1777. Quella statua aveva la zoccolatura corrosa e mons. Cerato la fece restaurare e la espose proprio dove attualmente c’è una nuova statua lignea di S.Antonio, donata dal sindaco Antonio Valerio; così la vecchia statua passò prima nel sottochiesa e poi in un ripostiglio dove ora giace dimenticata. Un altro importante dono lo fece la famiglia di Santino Volpe col gruppo ligneo della “Pietà” posto nella prima cappella a destra. Varie persone fecero poi pervenire piccoli doni, fra i quali un quadretto a olio, copia ottocentesca di una scena religiosa, ora in canonica.
Considerati i tempi della ristrutturazione della parrocchia, si può dire che mons. Cerato, in circa tre lustri, riuscì a completare il compito ricevuto di accorpamento parrocchiale e spostamento del duomo. Finito questo ciclo subito se ne presentò un secondo, quello cioè di smembrare la grande parrocchia di San Giuseppe, perché il fervore edificatorio postbellico aveva creato vari insediamenti abitativi lontani dal nuovo duomo. Così mons. Cerato, con l’autorizzazione del vescovo Bortignon, divise la parrocchia di San Giuseppe Artigiano e altre tre parrocchie sorsero nel perimetro cittadino. Iniziò la parrocchia del Carmine, istituita il 28 dicembre 1960 con sede in via Valli per la zona di Montericco. Seguì subito l’istituzione della parrocchia nella zona di Costa Calcinara, che si avvalse di un dono del conte Cini il quale cedette una bella fetta di terreno per crearvi le strutture necessarie. La nuova parrocchia fu chiamata del SS. Redentore a ricordo del grande convento intitolato San Salvatore, popolarmente “San Salvaro” soppresso nel periodo napoleonico.
Infine per completare la ripartizione nacque la parrocchia di San Giacomo, chiesa già pienamente funzionante e completa di molti fabbricati sussidiari, del convento francescano dei Minori.

Capitolo 2

La parrocchia di Marendole del 1803

E’ questa l’unica chiesa di un territorio monselicense eretto a parrocchia prima delle leggi napoleoniche del 1810 che soppressero gli ordinamenti ecclesiastici di origine medievale. Nella pietra tombale tuttora esistente nel cimitero di Monselice del sacerdote don Luigi Gatto parroco in quella chiesa nella seconda metà del 1800, e riportata nelle pagine precedenti, si legge che l’erezione a parrocchia di Marendole avvenne nel 1803. Nel 1077 l’imperatore Enrico IV con un documento confermò alla famiglia d’Este la proprietà di una villa a “Merendola”. In un altro documento del 30 marzo 1276 per la prima volta viene citata la chiesa di “Sanctus Nicola a Merendula”. Il Cardinale Paltanieri, costruttore nel 1256 della chiesa di Santa Giustina di Monselice ora chiamata anche Duomo vecchio, nel suo testamento del 1277 lasciò alla chiesa di Marendole cinque campi. Nel successivo 1297 fu scritto che quella chiesa era censita fra quelle della pieve di Santa Giustina. Una precisazione di quel documento indica che la chiesa era retta da Michele coadiuvato dal chierico Giacomo; se ne deduce perciò che là si esercitava anche la cura d’anime. Invece nelle visite pastorali del 28 settembre 1457 e del 3 giugno 1482 è chiamata chiesa campestre di San Nicola e si dice che era senza rettore, senza fonte battesimale e senza cimitero per cui vi si celebrava solo di tanto in tanto. Nelle visite pastorali del 1582 e 1587 il Vescovo trovò che a Marendole non c’era la possibilità di costruire la canonica, perché tutti i terreni circostanti la chiesa erano di Buzzacarini e che il rettore, abitante a Monselice, compariva solo nei giorni festivi e infine che mancavano il fonte battesimale e il Santissimo. Solamente nella visita vescovile del 10 settembre 1628 si precisa che a Marendole vi erano il fonte battesimale, il Santissimo e infine che essa dipendeva dal Seminario di Padova. Nella visita del 13 maggio 1713 vengono citati il cimitero e il campanile costruito poco prima. Il Vescovo Callegari nella sua visita dell’11 novembre 1877 precisa invece che mancava il cimitero e che i defunti venivano sepolti a Monselice, come avviene ancora oggi. Nell’ultimo dopoguerra la parrocchia si è dotata di un asilo infantile.

Capitolo 3

  Le nuove parrocchie del 1919

La pieve di Santa Giustina, lungo i secoli passati, aveva giurisdizione su chiese e oratori situati nel territorio del comune di Monselice e in altre zone del circondario. Costruita del XIII secolo la pieve iniziò da subito ad avere un congruo numero di preti. Infatti già nel secolo successivo vi erano, oltre all’arciprete, una Collegiata di sei canonici e quattro mansionari. Questi ultimi erano saltuariamente a servizio delle chiese e degli oratori del contado perché i responsabili, che erano sacerdoti abitanti a Padova, spesso non erano presenti. Questa situazione durò fino al 25 aprile 1810, quando Napoleone promulgò leggi che soppressero collegiate, privilegi religiosi e parecchi conventi. Fu così che il Vescovo riordinò l’assetto della suddivisione ecclesiastica di Monselice e istituì altre tre parrocchie, oltre a quella di Santa Giustina, collegandole tra loro e con le chiese del territorio, esclusa quella di Marendole. Le tre chiese già esistenti che divennero parrocchie furono quelle di San Martino, San Tommaso Apostolo e San Paolo. Il vescovo di Padova Pellizzo, con suo decreto del 25 aprile 1919, abolì quella circoscrizione interparrocchiale e suddivise il territorio monselicense in cinque parrocchie autonome: quella del centro cittadino chiamato parrocchia urbana di Santa Giustina, e quelle di Monticelli, San Bortolo, San Cosma e Ca’Oddo. Per conoscere lo sviluppo storico di cappelle e oratori, divenuti punti di riferimento delle nuove parrocchie, farò brevi cenni estratti dai resoconti delle periodiche visite pastorali dei Vescovi padovani nei secoli andati.

3.1 Santa Giustina

La chiesa di Santa Giustina, oggi chiamata anche duomo vecchio, ha una ricca storia. E’ il tempio più noto e famoso di Monselice, costruito nel 1256 dal conterraneo cardinale Paltanieri. Molti libri e opuscoli ne parlano in modo ampio e storicamente preciso, per cui rimando a quelle pubblicazioni che, anche se oggi non sono più in commercio, sicuramente possono essere consultate nella biblioteca comunale di San Biagio a Monselice.

3.2 Monticelli

Riesco a tracciare più dettagliatamente la storia di questa nuova parrocchia perché ho avuto l’occasione di leggere il “Cronicon”, cioè il diario parrocchiale dei primi parroci. La zona nella quale sorge questa parrocchia è l’insieme di due luoghi contigui che si sono uniti nel tempo: Lispida e Monticelli, tutti e due nel comune di Monselice. Ai piedi della collina di Lispida si trovava un convento con annessa chiesa e sui rilievi di Monticelli c’erano due oratori privati, uno del patrizio veneto Renier annesso alla villa, l’altro della famiglia Fasolo sul colle Pignaro. Fin dal XII secolo a Lispida sorgevano una chiesa dedicata alla Madonna Assunta in Cielo e un convento. Dapprima fu un eremo di frati, poi nel XV° secolo di suore e infine dal XVI° dei Canonici Regolari di Sant’Agostino. Nella visita pastorale del 31 agosto 1864 il Vescovo Federico Manfredini constatò che il convento e la chiesa erano in cattivo stato manutentivo e che il proprietario era il conte Corinaldi. Il Vescovo ordinò che fossero tolti gli arredi sacri e fossero portati “in luogo più decoroso”. Poco dopo il Corinaldi trasformò l’antico convento in una villa incorporandovi anche una parte della chiesa, mentre l’altra parte fu demolita. Quella villa, durante la prima guerra mondiale, fu abitata da Vittorio Emanuele III re d’Italia e da allora fu chiamata Villa Italia. L’oratorio Renier è stato eretto nel 1702, come risulta dagli atti presso la curia vescovile di Padova. Nella visita pastorale del 31 ottobre 1822 è riferito che quell’oratorio conservava il SS. Sacramento, aveva un piccolo campanile, un altare di legno dedicato a san Luigi Gonzaga e alla messa festiva erano ammessi anche i paesani che vivevano lì vicino. Quella villa allora era circondata dai cipressi ancor oggi visibili, e si dice che avrebbero ispirato a Ugo Foscolo “I sepolcri”. Nella visita pastorale del 21 novembre 1888 il vescovo Callegari non fa menzione della chiesa, perché qualche anno prima era stato tolto il SS. Sacramento e portato nell’oratorio della famiglia Fasolo, detta Bergamasco, dedicato a san Carlo Borromeo. L’oratorio Renier fu dismesso quando la villa divenne proprietà della famiglia Forti che rimpicciolì la chiesetta per dare spazio all’abitazione del castaldo, lasciando solo le tombe della famiglia Renier. L’oratorio che rimase a testimonianza della fede degli abitanti di Monticelli fu solamente quello del monte Pignaro, divenuto poi proprietà della parrocchia e alla fine ceduto a privati. La prima menzione dei quel luogo di culto è del vescovo Veronese che, nella visita pastorale alla parrocchia di San Paolo di Monselice del 4 maggio 1762, lo cita perché là insegnava la dottrina cristiana un mansionario della chiesa di San Paolo. Nella visita del Vescovo Farina del 23 settembre 1822 si riparla di quella chiesuola che aveva anche un campaniletto con due campane. Il parroco di San Paolo di Monselice, durante la visita del Vescovo Callegari del 21 novembre 1888, ci fa sapere che nell’oratorio di San Carlo in Monticelli si conservava il Santissimo e che, per la santa Messa festiva, provvedeva la parrocchia di San Paolo.

Chiesa di Monicelli

L’oratorio nel frattempo era stato ingrandito e arricchito di un altare di pietra bianca, che sostituiva quello vecchio di legno. Il primo parroco di Monticelli don Giulio Moretti nel “Cronicon” ipotizza che quell’altare di pietra sia stato ricavato dalla chiesa sconsacrata di Lispida. Dall’oratorio di san Carlo Borromeo partì la nuova parrocchia di Monticelli. La sua nascita fu tribolata e a suscitare le reazioni di molti fedeli fu il luogo dove costruire la nuova chiesa. Il 12 giugno 1914 il vescovo Pellizzo nominava don Giovanni Trentin curato, con sede nell’oratorio e disponendo per il suo sostentamento una parte del beneficio della chiesa di San Paolo. Presso i benestanti del luogo, soprattutto le famiglie Forti e Corinaldi, il Trentin si adoperò per cercare gli aiuti per la costruzione di chiesa e canonica e propose nel contempo l’ubicazione delle opere parrocchiali. La scelta non fu ben accolta da molti parrocchiani. Nel 1915 con l’entrata in guerra dell’Italia, don Trentin fu richiamato alle armi e dovette dare le dimissioni dal suo incarico. Il Vescovo allora nominò economo spirituale per la zona di Monticelli don Giulio Moretti che, il 18 dicembre 1916, fu eletto “parroco di San Paolo in Monticelli”. Gli anni 1917 e 1918 furono tribolati sia per la guerra che per la micidiale influenza, denominata spagnola. Nel 1919 il vescovo Pellizzo nominò don Giulio Moretti parroco di Monticelli a tutti gli effetti. Questo sacerdote trovò difficoltà nella raccolta dei fondi necessari alla costruzione delle opere, anche per il sorgere di un certo disorientamento procedurale, in quanto il nuovo vescovo Elia Dalla Costa non era convinto delle scelte organizzative fatte precedentemente. In aggiunta il parroco subì un grosso infortunio ad una gamba che lo costrinse a una degenza di sette mesi. Fu così che, dopo la visita pastorale dell’11 marzo 1925, stimò opportuno dare le dimissioni. In sua vece nel 1926 fu nominato don Vincenzo Pertile che fu poi il vero costruttore di tutte le opere necessarie per la nuova parrocchia. Egli per primo riuscì a coinvolgere tutta la popolazione attorno al suo piano. Promosse la costituzione di una commissione coinvolgendo il conte Corinaldi, il nuovo proprietario di villa Italia commendatore Vittorio Sgaravatti, la famiglia della contessa Forti in Lugli, nuovi proprietari della villa Renier, e soprattutto molti volonterosi parrocchiani. Fu così che prese corpo l’organizzazione delle offerte. Don Vincenzo Pertile si impegnò personalmente per 15.000 lire in tre anni, così i signori Sgaravatti e i conti Corinaldi, mentre i parrocchiani si impegnarono complessivamente per altre 55.000 lire. La famiglia Forti offrì gratuitamente il terreno dove costruire le opere. I popolani, trascinati dal lavoro del parroco, scavarono la sabbia sul terreno di proprietà Forti e poi la ammassarono sul luogo per gettare le fondazioni della chiesa. Vittorio Sgaravatti, possessore anche di cave di trachite, donò e trasportò in loco il sasso necessario per le fondazioni. Mentre si sviluppavano queste iniziative, Sgaravatti aveva proposto alla commissione parrocchiale come progettista e direttore dei lavori l’architetto Attilio Scattolin da Treviso. La proposta fu accettata da tutti, anche dal Vescovo. L’architetto presentò un progetto in stile romanico che fu approvato dalla commissiona diocesana di arte sacra. Il 25 marzo 1928 fu posta la prima pietra, benedetta dal vescovo Elia Dalla Costa. I lavori furono affidati a una impresa di Tribano, con un capitolato ben preciso. Il 10 aprile 1928 iniziarono i lavori. All’inizio di luglio i lavori furono sospesi di comune accordo, perché l’impresa chiedeva una revisione dei prezzi. Il direttore dei lavori riscontrò invece varie manchevolezze nella costruzione. Così di comune accordo fu rescisso il contratto e fatto un altro appalto vinto da un’impresa di Treviso. I lavori furono ripresi alla fine del mese di agosto 1928. Nella seconda quindicina di settembre vi fu un periodo di insistenti piogge che evidenziarono leggeri cedimenti nelle fondazioni. Fu subito provveduto ai necessari rinforzi, sotto la guida dell’ingegnere Buratti e i lavori continuarono in modo celere, tanto che l’ossatura della chiesa fu completata alla fine dell’anno. Le spese intanto erano aumentate e le risorse accumulate non riuscirono a coprirle; così si ricorse a un prestito bancario che però fu limitato, tanto che i lavori a un certo punto si fermarono. Nel luglio del 1929 il Vescovo offrì un contributo di 5.000 lire onde permettere la ripresa dei lavori. Altrettanto fecero Sgaravatti Vittorio e il parroco don Pertile. Il 15 giugno 1930 vi fu la solenne inaugurazione della chiesa presieduta dal Vescovo con la totale affluenza dei parrocchiani commossi ed esultanti. In ventisei mesi la bella chiesa della piccola comunità era stata costruita in modo che potesse essere funzionale. Rimaneva la costruzione della canonica che il parroco sperava di poter attuare vendendo una quota del beneficio di San Paolo di Monselice di cui fino allora aveva goduto. Il sacerdote responsabile di San Paolo si oppose, creando così un contenzioso che arrivò al tribunale ecclesiastico diocesano di Padova, dove Monticelli non trovò ragione e decise di ricorrere presso la congregazione romana che deliberò un rimborso di 20.000 lire e propose nel contempo un compromesso da trattarsi presso il tribunale diocesano di Padova. San Paolo si oppose, però alla fine quel tribunale stabilì che Monselice doveva dare 14.000 lire a Monticelli, pochi soldi anche allora per costruire la nuova canonica. Finalmente il 25 aprile 1935 fu benedetta la prima pietra della costruzione il cui progettista fu sempre l’architetto Scattolin. Questa volta l’impresa fu quella di Andolfo Massimiliano da Monselice, il quale nel 1942 costruì anche il campanile. Per pagare le spese dei nuovi lavori il parroco dovette contrarre un debito di 20.000 lire che addossò a se stesso. Il giorno della liberazione – 28 aprile 1945 – il campanile fu colpito da alcune cannonate di un carro armato della colonna alleata che “sulla statale 16” andava verso Padova. Fu danneggiata la cella campanaria. Appena finita la guerra il campanile fu riparato con un spesa di 13.000 lire. Nel 1946 le campane danneggiate furono rifuse e poste in un castello di ferro quelle nuove. Dopo la guerra vi fu un nuovo fervore nella raccolta delle offerte per la chiesa, che mancava ancora di alcuni abbellimenti interni. Nel 1948, con un attivo di 50.000 lire in cassa, si pose mano alle ultime opere: la tinteggiatura e la pavimentazione in marmo di tutta la chiesa. Il presbiterio era decorato fin dal 1930. Tutto questo apprezzò il vescovo Carlo Agostini nella visita pastorale del 21 novembre 1948 quando propose la consacrazione della chiesa per il 9 maggio successivo; ma non poté presiedere la consacrazione per motivi di salute. Lo sostituì monsignor Ambrosi Vescovo di Chioggia, il quale nell’omelia lesse la bolla con la quale il vescovo Agostini nominava don Vincenzo “arciprete ad personam”. Questo fervente e operoso sacerdote morì il 12 giugno 1957, compianto dai suoi parrocchiani e da quanti lo avevano conosciuto. Gli successe il nipote don Bernardo Pertile che fece costruire l’asilo infantile.

3.3 San Bortolo

Le prime notizie storiche su questa località risalgono ai secoli tredicesimo e quattordicesimo e sono relative prima ad un ospizio di San Bartolomeo di Monselice e poi solo a una chiesa. In una visita pastorale del XV secolo il Vescovo Barozzi, molto preciso nel descrivere i luoghi di culto della diocesi di Padova, indica quella di San Bartolomeo come chiesa campestre, precisando che mancava di sacerdote anche se gli abitanti ne avevano chiesto ripetutamente uno per la cura d’anime. Di fatto il titolare era un canonico di Padova che, pur godendo del beneficio di quella chiesa costituito da parecchi campi, non la curava affatto. La visita pastorale del 1582 ci fa sapere che la chiesa e il beneficio erano annessi al seminario di Padova, il quale manteneva in loco un sacerdote che celebrava la messa festiva. Dal cardinale Rezzonico, nella sua visita del 13 luglio 1748, si sa che nei giorni festivi oltre alla Messa c’era anche l’insegnamento della dottrina cristiana a tutti i bambini della contrada. Nel secolo successivo il vescovo Manfredini, nella visita del 22 agosto 1864, scrisse che nella chiesa di San Bortolomeo si conservava il Santissimo e che era una curazia sussidiaria della pieve di Santa Giustina, cui apparteneva il suo territorio. E’ anche noto che la vecchia chiesa trovata dal vescovo Barozzi fu restaurata più volte, ma ricadendo sempre in un abbandono più o meno profondo. Per esempio nella visita del 4 maggio 1762 il Vescovo, trovando la chiesa in condizioni precarie, ne decretò la chiusura ove non fosse restaurata entro sei mesi. I lavori furono subito eseguiti dagli abitanti. All’inizio del secolo ventesimo i frazionisti si adoperarono per creare per proprio conto una chiesa nuova capace di contenere tutti gli abitanti di quella zona chiamata ormai da tutti San Bortolo. Infatti nel 1904 il vecchio campanile fu demolito e cominciò la costruzione di uno più grande, che arrivò subito fino alla cella campanaria. Nel 1909 fu iniziata la costruzione di una nuova chiesa a una sola navata con quattro cappelle laterali. Nel 1919 la chiesa di San Bartolomeo fu eretta parrocchia autonoma alla quale fu assegnata la larga zona di quella frazione. I lavori di completamento della chiesa continuarono e finirono sia pur in modo spartano. Nel 1930 la chiesa fu benedetta, divenendo un degno tempio per la nuova parrocchia. Dopo la seconda guerra mondiale il parroco don Silvio Resente abbellì la chiesa e nel 1956 riuscì pure a costruire l’asilo infantile. Attualmente vi è anche il cimitero.

3.4 San Cosma

Il primo documento che parla della chiesa campestre dei santi Cosma e Damiano è del 1213; in esso è precisato che essa si trovava nella contrada Stortola di Monselice, vecchio nome che la frazione mantenne fino al ventesimo secolo. Anche il Vescovo di Padova Barozzi, nella sua visita pastorale del 1489, visitò quella chiesa, scrivendo poi che era lunga circa dieci metri, larga cinque e che aveva quattro altari. Nella visita vescovile del 1571 fu riscontrato invece che nella chiesa era rimasto un solo altare ed era collegata alla chiesa prepositurale di San Matteo di Vanzo. Il vescovo san Gregorio Barbarigo nel 1665 visitò la chiesa e scrisse che era diventata un romitorio dove vivevano alcuni eremiti. La relazione di un’altra visita pastorale del 1686 dice invece che la chiesa era sotto la giurisdizione di quella di San Martino di Monselice e che in essa si insegnava dottrina cristiana ai fanciulli e alle fanciulle. Infine nel 1915 il Vescovo la eresse in curazia determinandone i confini. Nel 1919 quella curazia fu trasformata dal vescovo Pelizzo in parrocchia autonoma e vi fu nominato parroco don Domenico Favero. Fino a quel tempo la chiesa si trovava alla confluenza tra la provinciale per Vanzo e una via della frazione Stortola, ora chiamata via “Chiesa Vecchia”. Il nuovo parroco, constatando che quella chiesa era decentrata rispetto all’agglomerato frazionale che si era formato nei tempi, spostò la costruzione della nuova chiesa nel luogo ove c’erano i maggiori insediamenti abitativi.

Chiesa di San Cosma

L’edificazione della chiesa iniziò nel 1922, poi in rapida successione fu completata con altre strutture per creare un complesso efficiente. Infatti nel 1925 fu costruita la canonica e nel 1929 il campanile. Nel frattempo nel 1927 l’autorità competente costruì le scuole. Don Domenico Favero lavorò intensamente per oltre 25 anni e riuscì a creare una parrocchia piena di iniziative e fermenti. L’amministrazione comunale di Monselice, a ricordo di quel sacerdote pieno di fervore pastorale, intitolò al nome del parroco don Domenico Favero il sagrato ormai diventato la piazza frazionale. Dopo poco, per significare che il vero centro propulsore della frazione era stata ed era ancora la nuova chiesa del santi Cosma e Damiano, il Presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio comunale di Monselice, decretò il cambio del nome della frazione da Stortola a San Cosma. I parroci che succedettero a don Favero abbellirono la chiesa e costruirono un centro ricreativo e di aggregazione. Attualmente a San Cosma vi è anche il cimitero.

3.4 Ca’ Oddo

Nel secolo diciassettesimo, al tempo del vescovo di Padova san Gregorio Barbarigo, la zona era chiamata Moralediemo e aveva due chiesuole: l’oratorio di san Giovanni Battista di Ca’ Oddo e quello di sant’Antonio di casa Capodivacca. Dato che molte terre della frazione erano proprietà dei conti Oddo, il toponimo Ca’ Oddo finì per indicare tutta la zona. Nel 1919 l’oratorio di sant’Antonio di Padova divenne la chiesa della curazia autonoma che ereditò i beni della soppressa parrocchia di san Tommaso Apostolo Santomio” di Monselice. I primi passi della curazia furono stentati tanto che, in quattro anni, vi si avvicendarono tre sacerdoti, i quali non riuscirono a organizzare in unità parrocchiale i frazionisti, forse perché essi risiedevano fuori paese non essendovi in loco la canonica. Nel 1922 fu nominato parroco don Luigi Barbierato che in breve tempo trovò una dimora nella frazione. Poi concluse un accordo, seppur con alcune clausole limitative, col conte Arrigoni degli Oddi, proprietario di tante terre, che donò l’area per la chiesa nuova. Nel 1924 con l’aiuto di molti parrocchiani fu edificata la canonica che, il 23 marzo 1925, il vescovo Elia Dalla Costa benedisse durante la sua prima visita pastorale. La prima pietra della chiesa fu benedetta dal Vescovo il 9 maggio 1926. Il progettista fu l’ingegnere Annibale Mazzarolli, podestà di Monselice, che lavorò gratuitamente. La costruzione della chiesa, grazie al fervore e all’impegno della popolazione locale e delle varie organizzazioni parrocchiali, terminò nel 1929. Nel 1932 il parroco don Luigi Barbierato si laureò in filosofia a Padova e nel 1936 lasciò la parrocchia per insegnare nel collegio Vescovile di Este. Ricordo questo fatto perché ho avuto l’occasione fortunata di conoscere Don Barbierato. Tra il 1938 e il 1939 egli mi preparò a due esami di concorso che segnarono la mia vita: il concorso per la cattedra di maestro e quello per l’iscrizione all’università. Sento per lui un debito di riconoscenza e lo ricordo simpatico, bravo, facondo e soprattutto insegnante scrupoloso. In quei tempi si diceva che aveva dovuto abbandonare la parrocchia perché simpatizzava per il fascismo. Secondo me, se è vero che i suoi insegnamenti seguivano l’ortodossia dell’educazione allora in voga – e chi voleva lavorare non poteva fare diversamente – era pur vero che il suo ideale politico era una romantica visione riguardante più che altro il modo di alleviare i grandi bisogni che angustiavano la popolazione. Dopo la guerra la parrocchia mostrò un rinnovato fervore costruttivo nel portare a termine l’asilo e le opere parrocchiali.

Cap. 4
Costituzione delle ultime parrocchie degli anni ‘60

Dopo l’ultima guerra Monselice ebbe un tumultuoso sviluppo edilizio creando agglomerati abitativi in zone decentrate rispetto al vecchio perimetro cittadino. Fu così che l’arciprete del Duomo, monsignor Angelo Cerato, si avvide che molti fedeli insediati in zone lontane dal centro religioso non potevano essere raggiunti da una continua azione pastorale. Si interessò allora presso il vescovo Girolamo Bortignon per smembrare la grossa parrocchia del centro in più parti. La parrocchia del duomo intitolata a san Giuseppe Artigiano si rimpicciolì, perché il suo territorio fu diviso in quattro parti: al centro rimase la parrocchia del Duomo, mentre furono fondate tre nuove parrocchie: a ovest quella di Santa Maria del Carmine, a est quella del SS. Redentore e a sud quella di San Giacomo.

4.1 Santa Maria del Carmine

Questa parrocchia, chiamata dalla popolazione “il Carmine”, sorse in via Valli ai piedi del Montericco il 28 novembre 1960. Il suo nome deriva da una chiesetta, detta del Carmine, dismessa e venduta a un privato dall’arciprete Arciprete Angelo Cerato, onde ricavare fondi per la costruzione del nuovo duomo. Questo oratorio ai piedi del Montericco in via Trento Trieste era da sempre la chiesa amata dagli abitanti di quel colle. I montericani festeggiavano la Patrona con una sagra ricca di vecchie tradizioni. Ricordo quando fu costruito il nuovo complesso parrocchiale dalla ditta Andolfo. Vi sono la canonica, i servizi parrocchiali con aule e una sala per riunioni. Da subito la sala fu trasformata in chiesa con un altare e un campaniletto, quest’ultimo utile sia per richiamare i fedeli, sia per indicare che i fabbricati sono un complesso parrocchiale. Il Comune ha poi costruito là vicino una scuola elementare a servizio di quella zona. Purtroppo a tutt’oggi la chiesa non è stata ancora edificata, ma l’attuale forte sviluppo di quella zona lascia sperare che la chiesa nasca abbastanza presto, anzi, alla fine del 2007, sono iniziati i lavori per la sua costruzione, essendo parroco Don Francesco Alberti. Il primo parroco di questa parrocchia fu Don Bruno Magagna, il cui nome ora è ricordato da una via di quella zona di nuova espansione del Montericco. Per illustrare un po’ l’origine della vecchia chiesa del Carmine, credo utile riportare qualche cenno storico. Secondo gli studiosi questa chiesuola dopo la costruzione avrebbe subito tre trasformazioni. Nel 1424 infatti il priore dei Carmelitani avrebbe costruito un oratorio dedicato alla Natività di Maria, con un campaniletto posto a sinistra di chi guarda la facciata, cioè dalla parte opposta rispetto all’attuale campanile. Sembra che alla fine del 1400 vi fosse anche un convento di Carmelitani annesso alla chiesa. Col secondo restauro del 1594 vi fu la costruzione del campanile attuale che è a destra, mentre l’interno fu affrescato e ampliato da due cappelle laterali. La terza trasformazione avvenne nel 1781 quando la famiglia Giacomazzi, proprietaria della chiesa, la riorganizzò totalmente. Il Salomonio nel suo libro “Agri Patavini …” del 1696, dove raccoglie le iscrizioni di tutte le lapidi esistenti negli edifici pubblici, nelle chiese e negli oratori della diocesi padovana, scrive che nella chiesa di Santa Maria del Carmelo di Monselice c’erano sulle pareti quattro lapidi: due del 1592, una del 1640 e l’altra del 1645. Recentemente l’edificio è stato restaurato dalla Provincia di Padova, proprietaria dell’ex chiesa.

4.2 San Giacomo

Questa antica chiesa, annessa al convento dei frati Minori, era già validamente funzionante sin dal XIX secolo. Praticamente era una chiesa sussidiaria della parrocchia del duomo di Santa Giustina. La sua trasformazione a parrocchia fu un fatto formale, che avvenne l’otto dicembre 1966, perché già tutto era funzionante. La parte più antica delle numerose costruzioni che formano il convento ha subito restauri e sistemazioni dopo la seconda guerra mondiale. All’inizio degli anni sessanta l’impresa Andolfo, sotto la guida dell’ingegnere Gino Bovo e il controllo della Soprintendenza ai monumenti di Venezia, eseguì lavori radicali nel convento e nella chiesa. Negli anni 1990, quando ormai la parrocchia esisteva da circa 25 anni, la Soprintendenza finanziò due stralci di lavori che furono eseguiti dalla mia impresa Trevi. Col primo fu sistemato il coperto della chiesa creando anche la coibentazione cioè l’isolamento caldo e freddo. In aggiunta furono messe in luce le prime strutture medievali fatte con masselli di trachite squadrati e lavorati a fuga. Col secondo stralcio fu rifatto totalmente il tetto dell’abside, che era in cattivo stato manutentivo, e restaurato il campanile che aveva la cuspide a pigna degradata. Questi lavori furono tutti controllati dal francescano Angelo Polesello che era anche architetto di fiducia della Sovrintendenza. In occasione poi dell’anno giubilare 2000, lo Stato finanziò altri lavori per creare un piccolo ostello sito in un fabbricato che collega il convento alla attigua villa Buzzacarini anche questa di proprietà dell’ordine. L’architetto Angelo Polesello progettò e controllò quei lavori. Il complesso religioso è un’opera importante e famosa per la sua lunga storia; per questo rimando ai vari libri sull’argomento che si trovano sia nel convento francescano che nella biblioteca comunale di San Biagio.

4.4 Santissimo Redentore

Nell’ottobre del 1966 l’arciprete del duomo di San Giuseppe annunciò pubblicamente, come aveva fatto per San Giacomo, che sarebbe sorta una parrocchia nella dorsale delle vie Costa Calcinara e Arzerdimezzo, al di là della circonvallazione della statale per Padova. Dopo alcune settimane arrivò l’incaricato Don Rino Brasola, già conosciuto in città perché era stato cappellano per tre anni nel nuovo duomo. Subito il sacerdote si insediò in quel rione prendendo in affitto una casa e si mise all’opera per l’organizzazione, chiamando a raccolta i fedeli disponibili. Uno dei primi impegni fu la ricerca del nome da dare alla nuova chiesa. Al centro di quella zona vi sono gli imponenti edifici di una abbazia benedettina, chiamata volgarmente San Salvaro, che è l’equivalente dialettale di Salvatore o Redentore. Sulle prime sembrò che quel nome s’imponesse, poi però prevalse SS. Redentore perché, là vicino all’ex abbazia, c’è il cimitero comunale che viene denominato San Salvaro e quindi sarebbe sorto un doppione. Il problema maggiore però fu la chiesa. La prima chiesa provvisoria fu una piccola costruzione prefabbricata posta su un terreno regalato dai coniugi Schiesari-Caramore.

Prima chiesa provvisoria del redentore

Questi benefattori avevano già costruito là vicino un asilo infantile, intitolato a Maria Caramore, che offrì la sala maggiore per le riunioni dei fedeli della nuova parrocchia. Il 28 aprile 1968 il parroco Don Rino Brasola fece il proprio ingresso nella nuova sede. Essendo però la chiesa insufficiente per i numerosi fedeli di quella zona, tutti si misero alla ricerca di una soluzione definitiva e appropriata. Proprio sulla stessa via Costa Calcinara, davanti alla chiesa prefabbricata, c’era la fattoria, chiamata Casa Rossa, di proprietà del conte Cini, che era stato per molti anni cittadino di Monselice. Richiesto da molti il conte Cini donò alla nuova parrocchia un grande appezzamento di terreno. Subito fu incaricato l’architetto Valentino Bonato, già noto in città perché progettista del duomo nuovo e della scuola media Guinizelli. Questi, associatosi con l’architetto Cornoldi – docente all’Università IUAV di Venezia, scomparso in questi giorni -, presentò un disegno comprendente chiesa, canonica e alcune aule. Il progetto fu accettato sia dai parrocchiani che dalle commissioni comunale e diocesana. Il primo novembre 1972 il Vescovo Bortignon benedì la nuova chiesa costruita dall’impresa locale Antonio Bortoliero. Attualmente la parrocchia è fornita anche di un’ampia sala per riunioni e di una scuola della dottrina cristiana, opere progettate dall’architetto padre Angelo Polesello, essendo parroco don Giancarlo Smanio. Questa parrocchia offre pure un ampio e ben costruito parcheggio per le auto, servizio oggi molto richiesto dai fedeli, progettato dall’arch. C. Massimo Trevisan.

Capitolo 5
I sacerdoti che operarono a Monselice nel secolo scorso

5.5 elenco abati mitrati dal 1844 al 2009

M. Evangelista De Piero

I – 1844–1898 Evangelista De Piero, fu il primo abate mitrato. Sotto il suo magistero nacque il progetto Lorenzo Polettini per l’ ampliamento di San Paolo. Contribuì per la fondazione dell’Istituto Buggiani e della Casa di Riposo.

 

 

 

 

 

 

 

M. Giuseppe Todeschini

II – 1898–1908 Giuseppe Todeschini, si ritirò non riuscendo a trovare un accordo tra fedeli e clero sui problemi delle parrocchie del contado e sul duomo nuovo del centro.

 

 

 

 

 

 

 

III – 1909–1911 Monsignor Callegaro, Arciprete di Stanghella. Vicario ad acta per risolvere i problemi delle parrocchie frazionali e del duomo nuovo in piano. Non riuscendo trovare un accordo si ritirò.

M. Pietro Prevedello

IV – 1912 –1919 Pietro Prevedello, ex parroco di San Paolo di Monselice. Si adoperò per trovare una collocazione per il duomo nuovo, alla fine decise per l’acquisto e il restauro di Santo Stefano, scelta che non riuscì a realizzare per lo scoppio della Grande Guerra. Nell’aprile 1919 il vescovo Pellizzo “motu proprio” istituì cinque nuove parrocchie dando a monsignor Prevedello, arciprete della parrocchia urbana di Santa Giustina, l’obbligo di costruire il nuovo duomo. Questi si ritirò.

 

 

 

 

 

V – 1920–1945 Luigi Gnata, ricevette dal Vescovo l’incarico di costruire il nuovo duomo. Non ci riuscì perché nel 1929 vi fu il fallimento della banca dove erano depositate le offerte raccolte. Aveva scelto anche lui di trasformare in duomo Santo Stefano e ne fece fare un progetto dall’architetto Contarello.

VI – 1946–1971 Angelo Cerato. A partire dal 1947 costruì in dieci anni duomo, canonica, campanile provvisorio e patronato Immacolata. Divise la parrocchia del Duomo in quattro parti: San Giuseppe Artigiano (Duomo nuovo), SS. Redentore, Carmine, San Giacomo.

M. Martino Gomiero

VII -1971–1982 Martino Gomiero, costruì in duomo il pavimento di marmo, il nuovo riscaldamento e rivestì il portone principale; intonacò all’esterno la canonica, sistemò l’enfiteusi sui campi di via Carrubbio e ristrutturò il patronato (nominato vescovo di Velletri e Segni, fu consacrato a Monselice).

 

 

 

 

 

 

M. Ezio Andreotti

VIII- 1982–2004 Ezio Andreotti, fece costruire l’ascensore, terminò la sala San Giuseppe, sistemò un atrio laterale per i confessionali, progettò lo scalone di entrata, completò il restauro del Patronato e sistemò la zona giochi.

 

 

 

 

 

 

 

M. Alberto Peloso

IX – 3/10/2004 Alberto Peloso. Ha già fatto varie opere: lo scalone, la sistemazione del piazzaletto su via Garibaldi, del cortile del Patronato e della cripta con la pavimentazione nuova.

 

 

 

 

 

 

5.2 Profili di alcuni sacerdoti operanti in Monselice nel ‘900

Non avendo documentazione precisa dei sacerdoti che hanno diretto le chiese a Monselice nel 1800 fino alla prima guerra mondiale, mi limiterò a richiamare il ministero di quelli dei quali, direttamente o indirettamente, ho sentito parlare e di quelli che ho conosciuto.

5.2. 1 Monsignor Luigi Gnata, arciprete 1920 – 1945.

Dopo le dimissioni di monsignor Prevedello, arciprete del Duomo di Monselice, il vescovo Pellizzo nominò come quarto abate mitrato di Santa Giustina monsignor Luigi Gnata già parroco di Galzignano. Era questi un sacerdote culturalmente preparato, pio, molto mite, pronto sempre al dialogo, incapace di assumere decise prese di posizione, molto fiducioso degli altri e poco esperto negli affari economici. Se non avesse avuto accanto una fabbriceria consapevole della vita socio-economica, sicuramente non sarebbe riuscito a superare le traversie che la sorte gli serbò. Fu con l’aiuto della fabbriceria che il modesto patronato San Sabino si ingrandì, con l’acquisto di piccoli lotti un po’ alla volta, fino ad avere un’area che poi servì al suo successore per costruirvi il nuovo duomo. I fabbricieri in quel tempo furono: presidente Santino Volpe, possidente e sufficientemente ricco da poter avallare anche da solo tutti i debiti della parrocchia del Duomo; consiglieri: Angelo Gittoi commerciante, Massimiliano Andolfo imprenditore, Francesco Bonaventura e Vittorio Rebeschini commercianti. L’arrendevolezza di monsignor Gnata fu interpretata da qualcuno un sostegno politico al fascismo come si trova traccia nella “Storia di Monselice” di Tiziano Merlin. Più tardi però lo stesso autore, in un lungo capitolo sul ventennio fascista incluso nel volume “Monselice”, pubblicato sei anni dopo, annacquò parecchio la definizione di fascista attribuita in precedenza a monsignor Gnata. L’accusa muove dal fatto che negli anni trenta benedisse qualche gagliardetto del partito o fu fotografato assieme a qualche gerarca. Monsignor Gnata non era un politico né un fascista, era solamente una persona che non sapeva dire di no a nessuno; d’altra parte poi i rituali fascisti venivano allora accettati da tutti, salvo alcuni come Pertini, i fratelli Rossella e pochi altri che per questo subirono le angherie e le persecuzioni fasciste. Se don Gnata fosse stato fascista certamente avrebbe ottenuto dallo Stato nel 1929 il rimborso, come promesso dalla Sovrintendenza, delle spese sostenute per il restauro del Duomo Vecchio, ma essendo solo “un prete” nessun gerarca fascista mosse un dito a suo favore. Che l’arciprete fosse politicamente un agnostico lo testimonia il fatto che nel “Cronicon”, da me letto, non accenna mai al fascismo, né nomina Mussolini quando è venuto a Monselice per passare in rivista l’81° reggimento fanteria. Al contrario scrisse un cenno quando a Monselice arrivò il principe Umberto. L’arrendevolezza e la semplicità di questo sacerdote sono testimoniati da alcuni fatti che purtroppo influirono in seguito con danni abbastanza rilevanti. Un suo confratello, per aiutare i propri nipoti abitanti a Monselice che dovevano abbandonare la conduzione di una campagna perché un’altra famiglia aveva una prelazione proprio su quel terreno, convinse l’arciprete Gnata a prendere una decisione importante e negativa per la parrocchia.

M. Luigi Gnata

Nel beneficio parrocchiale erano inglobati anche vari campi di terreno agricolo fra le vie Carrubbio, Ghiacciaia e F.lli Fontana e proprio questi furono ipotecati con un affitto perpetuo a favore della famiglia che aveva la prelazione sulla terra. Purtroppo fu sottoscritta un’enfiteusi, affittanza di tradizione medioevale trasmissibile anche agli eredi, in pratica senza fine e senza condizioni. In questo modo i nipoti rimasero nella terra che già coltivavano. Questi fatti procurarono nel dopo guerra, al tempo della costruzione del duomo nuovo, grossi problemi sia perché là si potevano agevolmente insediare la nuova chiesa e tutte le varie strutture necessarie, essendo quel luogo centrale, sia perché non fu possibile vendere il terreno, già allora molto richiesto per case, per ricavarne i soldi almeno per le opere di rifinitura del duomo nuovo, come le vetrate, la pavimentazione marmorea e le scale di sicurezza. Un altro fatto fu quello dei codici miniati. Persone ignote dichiaratesi studiosi, chiesero all’arciprete e ottennero di visionare, senza nessun controllo, gli antichi codici della pieve di Santa Giustina. Rimasti soli quei tipi ritagliarono dei disegni in varie pagine con le lamette. Solo dopo vario tempo qualcuno si accorse del furto; i codici allora furono immediatamente portati in curia a Padova dove ancora sono custoditi. Ciononostante monsignor Gnata fu un parroco benvoluto dal popolo che apprezzava il suo mite candore, anche perché quasi nessuno era a conoscenza dell’enfiteusi, il cui problema sorse solo nell’anno 1948. Personalmente ho conosciuto monsignor Gnata nel 1936 quando sono arrivato a Monselice. Ricordo che, allorché sono partito per la guerra, sono andato a salutarlo nella canonica adiacente al duomo di Santa Giustina; lo trovai sprofondato in una poltrona del suo studio e lo vidi preoccupato e smarrito.

5.2.2 Monsignor Basilio Mingardo, 1858- 1941

Non è questi un sacerdote che abbia avuto incarichi di responsabilità nelle parrocchie di Monselice, dove nacque, morì e operò volontariamente da pensionato negli ultimi tre lustri della sua vita terrena. Monsignor Mingardo nacque in una famiglia di cattolici praticanti, svolse il proprio ministero nella curia di Roma da dove tornò con il titolo di “Monsignore Cameriere segreto di Sua Santità”. Qui da noi svolse delle mansioni particolari che si era ritagliato, facendosi conoscere da tutti e anche da me, lasciando il ricordo di un sacerdote cordiale, ma soprattutto organizzatore di fastose celebrazioni. Visse appartato in una “cesura” posta in parrocchia di Marendole, in una casa a palazzetto veneto con davanti due ippocastani lungo la statale sedici. I proprietari erano lui e la cugina Angelina Mingardo, che gli faceva da perpetua, donna molto buona e gentile. Monsignor Mingardo riuscì a ricostituire a Monselice alcune congregazioni che avevano diverse sedi di riunione e si distinguevano tra loro per i colori dei rocchetti e, tutte assieme, partecipavano alle varie processioni. Egli era l’organizzatore di tutte le processioni fastose dell’anno liturgico e di tutte le feste delle chiesuole dove non risiedeva un cappellano. Molti popolani allora rimanevano incantanti nell’osservare lo snodarsi delle processioni e questo successe anche a me. Un valletto con tanto di livrea, feluca e bastone di comando apriva il corteo, seguiva un chierichetto con la croce astile, poi si accodavano, divise in due file, tutte le congregazioni con stendardi, rocchetti e addobbi di vari colori, indi le varie organizzazioni cattoliche, poi il baldacchino del Santissimo, oppure le statue dei Santi che si volevano venerare; infine chiudevano il corteo i fedeli. All’interno delle due file c’erano bandiere, labari, gonfaloni e monsignor Basilio Mingardo, ormai un po’ curvo, che con il suo bastoncino impartiva ordini, camminando avanti e indietro, perché tutto fosse ordinato secondo la sua collaudataesperienza romana. Egli aveva raccolto nella propria casa diversi oggetti religiosi e aveva creato una cappella personale attigua alla sua camera da letto; fece erigere nel camposanto di Monselice, (campo primo a destra) un’ampia cappella funeraria sul cui frontone è scritto:
“Sac. Basilius Mingardo, sibi suis – et nonnullis AD – MDCCCCXXVI”.
Su di lui un fatterello scherzoso raccontatomi a più riprese dai sacerdoti locali, che alla fine premiò don Basilio solo perché era uno che lavorava sodo e che viveva con semplicità. Verso la fine della sua permanenza a Roma don Mingardo, allora ancora semplice minutante, fu vittima di uno scherzo di alcuni confratelli. Questi suoi amici lo invitarono a pranzo e alla fine lessero una pergamena di loro invenzione con la nomina a monsignore di Don Basilio, il quale, credendo alla cosa, si comperò le vesti di rito e invitò tutti i suoi amici a pranzo per festeggiare la nomina. Sbalordimento di tutti, specie quando don Mingardo si presentò vestito da monsignore. I convitati, visto che la cosa era loro sfuggita di mano, per non creare uno scandalo, si attivarono nei vari uffici curiali, finché riuscirono ad ottenere il titolo di monsignore per don Basilio, che se ne tornò a Monselice “Monsignore Cameriere segreto di Sua Santità”, a godersi la meritata pensione. Don Mingardo ha il merito di aver portato a Monselice nel 1925 la statua della Madonna del Pomo, prelevata dalla cappella dei Grimani a Battaglia Terme e collocata nella chiesa di San Tommaso. Monsignor Basilio conosceva bene i legami storici tra la pieve di Santa Giustina e la parrocchia di Battaglia Terme con la sudditanza di questa alla nostra pieve. In occasione di lavori di restauro della villa Grimani e della dismissione dell’oratorio, chiese ed ottenne di portare la statua principale di quella chiesuola a Monselice, era la Madonna del pomo che attualmente è esposta nel transetto a destra del Duomo nuovo.

5.2.3 Don Luigi Gatto, 1832 – 1919

Il ricordo di questo sacerdote, morto a Monselice circa un anno dopo la fine della prima guerra mondiale, è ancora vivo nell’animo di molti anziani monselicensi. Egli esercitò qui da noi il suo ministero sacerdotale iniziando a Marendole, passando a San Paolo e terminando quale Rettore delle Sette Chiese, come è specificato nell’epitaffio della sua tomba in Monselice. Nonostante siano passati oltre ottant’anni dalla sua morte, la sua tomba è ancora in buono stato manutentivo, a sinistra nel primo campo del cimitero, tra le cappelle funerarie della famiglia Alvise Tortorini e della famiglia Marigo. L’epitaffio in latino recita: (Qui riposa il sacerdote Luigi Gatto. Nato a Quero, fu in cura d’anime, particolarmente degli infermi, nella parrocchia di San Nicola di Marendole istituita nel 1803, poi per dieci anni in quella di S. Paolo in Monselice e infine per sedici anni come rettore del santuario delle sette chiese. Uomo davvero straordinario.
(Nato nel 1832, morto nel 1919.) Quiescit hic Sac. Aloysius Gatto Domo Quero in cura animarum praecipueque infirmorum in paroecia S. Nicolai de Marendulis a.D. 1803 coepta et per annos 10 in altera D. Pauli de Montesilice perecta in regendo septem ecclesiarum sanctuario per annos 16 vere eximius n. 1832 ob. 1919
Questo sacerdote, di cui ho solo sentito parlare, è rimasto nell’immaginario popolare per varie peculiarità. E’ ricordato come persona gobba o quantomeno con il corpo non perfettamente eretto; veniva considerato guaritore, difensore dei deboli, vindice contro l’arroganza e la cattiveria, capace di comandare alle serpi e in generale agli animali. Per molti era, non solo un santo, ma anche un mago; probabilmente possedeva quelle che oggi chiamiamo capacità paranormali. E’ celebre il fatto del carrettiere che lo insultò lungo la via, subito il suo cavallo si fermò e non volle più ripartire. Si rimise in moto solo dopo che il suo padrone chiese scusa al sacerdote. E’ certo che molti amarono questo prete, amico dei poveri e temuto dai potenti, perché ancora oggi vi sono persone che si soffermano davanti al suo tumulo e provvedono alla pulizia della sua tomba.

5.2.4 Monsignor Angelo Cerato, arciprete 1946 – 1971

Con l’arciprete Angelo Cerato ho avuto una lunga frequentazione, per questo posso scrivere di lui più che per gli altri. Egli nacque a Enego nel 1896 ed entrò giovanetto in seminario. Durante la guerra 1915-1918, in qualità di soldato addetto alla Sanità, gli fu dato l’incarico di fare l’autista e guidare dei camion adibiti ad ambulanze, i famosi 15 ter, veicoli con ruote piene e trasmissione a catena. Con quelli riusciva ad arrivare anche nei pressi delle trincee percorrendo carrarecce piene di insidie e strapiombi per caricare feriti e portarli negli ospedali. Fu ordinato sacerdote nel luglio del 1922 alla presenza di Mons. Codemo, famoso predicatore della diocesi di Padova, che era stato suo insegnante. Dopo l’ordinazione fu subito nominato cappellano a Cogollo del Cengio. Il parroco di quel paese si trovava impegnato, lavorando molto anche di persona, nella costruzione della chiesa le cui fondazioni erano già state preparate dal predecessore. Andava spesso nei boschi con dei volontari per procurarsi il legname che doveva servire per realizzare le armature. Il legname era poi tirato giù “a strozzo” per i pendii fino al centro del paese, cioè veniva fatto scorrere sul terreno tirandolo con corde o picconi a una punta. Anche il giovane cappellano don Angelo diede il suo fattivo contributo alla costruzione, recandosi con i giovani a raccogliere sassi nelle cave dei dintorni. In quel paese don Angelo Cerato si adoperò molto per dare vita alle associazioni cattoliche. Il suo impegno diede subito buoni frutti, tanto che riuscì a ottenere che a ogni associazione aderissero più di cento soci, fatto notevole visto che si trovava in un paesetto. La maggioranza degli aderenti a quelle associazioni era politicamente su posizioni antifasciste, per cui si sparse la voce che il responsabile fosse il cappellano. Il risultato fu che, l’8 dicembre 1925, d’improvviso il giovane don Angelo si trovò trasferito, senza avere alcuna spiegazione, in un’altra cappellania a Cismon del Grappa. Qualche tempo dopo il vescovo di Padova, Elia Dalla Costa lo nominò curato a Carpanè e quindi parroco a Roana. Qui conobbe il giovane Luigi Sartori, nipote del campanaro, che egli avviò al sacerdozio. Quel giovane divenne uno dei più apprezzati e amati teologi italiani, della cui associazione fu presidente per decenni fino alla morte nel 2007. Don Angelo avviò al sacerdozio anche un altro giovane don Candido Maria Frigo che fu parroco di San Cosma di Monselice e arciprete di Tribano. All’inizio del 1936 il vescovo Carlo Agostini lo designò arciprete nella parrocchia importante ma turbolenta di Legnaro, dove esercitò l’ apostolato per dieci anni fino al 7 settembre 1946. L’inizio per lui non fu facile. L’anno prima del suo arrivo in paese si erano verificati forti contrasti tra fedeli e clero, tanto che la situazione si presentava difficile e pericolosa per ogni nuovo sacerdote. Per quelle tensioni don Angelo Cerato fu costretto ad arrivare nella sua parrocchia di notte e non senza qualche fondato timore di essere cacciato via l’indomani. Ma tutto andò per il meglio. A Legnaro don Angelo ebbe veramente la possibilità di mostrare le notevoli capacità di cui era in possesso.

M. Angelo Cerato

Il suo innato buon senso e il suo notevole attivismo, uniti a indubbie doti organizzative, gli consentirono in breve di rappacificare gli animi dei parrocchiani e così riuscì a farsi ben volere da tutti gli abitanti. Durante la guerra ebbe poi modo di mettere in mostra anche altre qualità: si distinse per il coraggio nel difendere i suoi parrocchiani dal rischio di rappresaglie da parte dei soldati tedeschi, tanto che alla fine nessun abitante del luogo fu ucciso per rappresaglia. Subito dopo la guerra don Cerato si impegnò nella costruzione di una nuova chiesa, perché gli abitanti di Legnaro intendevano rispettare il voto che avevano fatto: se il paese fosse stato risparmiato dai bombardamenti, che tra il 1943 e il 1945 avevano devastato molti centri del padovano, avrebbero costruito per riconoscenza una chiesa più grande e più bella di quella che erano soliti frequentare. Mentre si trovava impegnato nella realizzazione di quell’edificio religioso, gli arrivò da parte del vescovo la nomina per un incarico ben più importante: diventare arciprete-abate mitrato del duomo di Santa Giustina. Questo era motivo di onore e anche una testimonianza della stima che il vescovo nutriva per lui. Don Cerato esitò nell’accettare la nomina, specie per il compito gravoso e impegnativo che lo aspettava, tanto che nessun sacerdote desiderava essere nominato arciprete a Monselice. Invero il vescovo Agostini, in un primo momento, aveva designato a tale incarico il parroco di S. Elena don Contiero che, dopo qualche riflessione, aveva accettato. Ma quasi immediatamente aveva dovuto rinunciare. Anche se a lui non si poteva addebitare alcuna responsabilità o colpa, a Monselice abitava sua sorella che aveva due figlie notoriamente pubbliche prostitute. Infatti, appena avuta notizia della sua nomina, la gente di Monselice cominciò a mormorare e a mostrare di essere contraria alla sua venuta. La sede di Monselice rimase per qualche tempo ancora vacante. Alla fine don Angelo Cerato, cedendo alle molte insistenze che gli venivano dall’alto, sciolse la riserva e accettò. Ma lo fece, e me lo disse personalmente, come atto di obbedienza. E così assunse l’incarico di arciprete del duomo di Santa Giustina di Monselice, che svolse dal 1946 al 1971, distinguendosi per essersi dedicato lodevolmente alla cura delle anime. Il suo ricordo tra gli abitanti di Monselice rimarrà legato non solo all’aspetto pastorale, ma anche all’impegno profuso per dieci anni, in modo infaticabile, nella costruzione degli edifici religiosi. Le principali tappe edificatorie sono:
– edificio inizio lavori fine lavori
– sottocoro 8 settembre 1947 8 settembre 1948
– canonica 8 settembre 1948 8 settembre 1949
– campanile provvisorio maggio 1952
– patronato “Immacolata” maggio 1955 maggio 1960
– sottochiesa 8 settembre 1955 8 settembre 1956
– chiesa 8 settembre 1956 8 settembre 1957
Come si può constatare l’8 settembre, festa della natività della Vergine, fu per monsignor Cerato una data ricorrente per l’inizio e la fine dei lavori. L’8 settembre 1957 fu per lui il giorno che coronò dieci anni di intensa attività con l’inaugurazione del duomo. Tracciati i dati della vita di monsignor Cerato, ora desidero parlare della sua indole. Lo faccio perché ho sempre trovato fra lui e me delle somiglianze. Entrambi abbiamo faticato per poter studiare; entrambi abbiamo vissuto nello stesso ambiente militare; lui nella prima guerra mondiale io nella seconda, trovandoci in mezzo a pericoli e difficoltà; fu spesso incompreso, come lo fui anch’io quando facevo politica. Egli fu una persona volitiva e buon conoscitore della vita civile; aveva la capacità di intuire le doti dei suoi interlocutori, ma fu soprattutto un bravo organizzatore. In definitiva fu colui che riuscì a iniziare e portare a termine la riorganizzazione del territorio parrocchiale di Santa Giustina di Monselice, questione che si protraeva da molti anni.
Come sacerdote fu di esempio per clero e fedeli. Sempre pronto a percepire le nuove tendenze, volle che il duomo nuovo fosse intitolato a San Giuseppe Artigiano, giacché allora era il momento del riscatto del lavoro sul capitale. Fu poi sempre fedelissimo al suo vescovo, però non ebbe remore nell’aiutare qualche confratello che si trovava in angustie perché non seguiva le direttive superiori. Il sacerdote diocesano Attilio Negrisolo, (sospeso a divinis, cioè dalla celebrazione della messa, dal vescovo Bortignon perché grande devoto di Padre Pio) fu aiutato in quel frangente da monsignor Cerato. Durante tutta la grossa mole di lavori e di organizzazione per l’accorpamento della parrocchia, monsignor Cerato, con ampia visione di fede amore per la cultura e la società civile, ottenne anche altri validi risultati. Cercò e accolse il “Carmelo” a Monselice, scegliendo come dimora delle suore una villa al termine di via San Biagio. Iniziò anche l’Adorazione Perpetua nella chiesa di santa Rosa, oggi detta anche chiesa del Rosario, in via Buggiani. Monsignor Cerato fu pure l’antesignano a Monselice dell’istituzione della nuova scuola media statale. Infatti alla fine degli anni 40 l’arciprete mise a disposizione la canonica del duomo vecchio perché iniziasse a funzionare una sezione di scuola media collegata con il collegio vescovile di Este. L’esperienza durò assai poco, perché già nei primi anni 50 fu istituita la scuola media Guinizelli in villa Pisani che, qualche anno dopo, passò nell’edificio attuale. La vecchia canonica che si rese libera fu consegnata a una scuola elementare cattolica. Preoccupato poi dell’assistenza ai lavoratori, l’arciprete ampliò i compiti del circolo ACLI, istituendo nel nuovo patronato bar, mensa e locali sia per il tempo libero sia come punto di ristoro per gli operai che a mezzogiorno non potevano ritornare a casa propria. Un’altra iniziativa di carattere sociale, che però non durò a lungo, fu la creazione di una casa per ferie della nostra comunità parrocchiale a San Vito di Cadore. All’inizio degli anni 60 l’arciprete acquistò in quel paese un immobile che, con opportune varianti, sarebbe stato sufficiente e adatto per realizzarvi un soggiorno estivo per giovani e famiglie. La casa fu intitolata a “San Sabino” e subito usata dalla nostra parrocchia, nonostante l’Amministrazione comunale di San Vito, pur sollecitata, non avesse ancora concesso l’autorizzazione, che non arrivò mai, perché non si volevano in quel territorio case per comunità. Dopo alcuni anni di insistenze, l’arciprete dovette abbandonare l’iniziativa e rescisse il contratto. Questi i pregi di un uomo dal carattere impulsivo ed egocentrico; per questo, penso, non accettò mai che le sue opere, specie il duomo nuovo e il patronato, fossero preventivamente discusse dai suoi parrocchiani e dall’autorità civile. Un piccolo esempio che ha lasciato un certo sconcerto nelle file dell’Azione Cattolica. In una riunione di iscritti tra i quali anch’io, presieduta dall’arciprete stesso, fu discusso a chi intitolare il nuovo patronato parrocchiale. Dopo varie proposte e discussioni fu scelto all’unanimità il nome “San Sabino” del patronato precedente. Dopo neanche una settimana uscì il giornale “La Rocca” con la notizia che il nuovo patronato era intitolato alla “Immacolata”. A qualcuno che gli chiese spiegazione rispose che aveva scelto quel nome perché l’8 settembre per lui era un giorno particolare per quanto riguardava i lavori da lui coordinati a Monselice; e proprio l’8 settembre ricorre la festa della nascita immacolata della Madonna. Per concludere devo affermare che monsignor Cerato non fu solamente un costruttore, ma si adoperò anche con impegno per risvegliare lo spirito cristiano dei fedeli, spesso latente. Per questo volle che tutto il popolo della grande parrocchia del duomo potesse avere un’assistenza religiosa più vicina, così propose al Vescovo di suddividere il territorio in quattro parrocchie: Duomo, Carmine, San Giacomo e SS. Redentore.

Capitolo 6 

Le suore monselicensi

Nei secoli decimo ottavo e decimo nono in Italia sorsero un po’ ovunque ordini monastici, specie femminili, con lo scopo specifico di aiutare i diseredati, i bambini, i vecchi e gli ammalati che la società civile di allora non riusciva ad assistere. Attualmente questi ordini religiosi risentono di una grande diminuzione di vocazioni, cosi che vengono lentamente sostituiti dal volontariato laico, oggi invece in rapida espansione. Attualmente vi sono gruppi e associazioni formati da volontari che operano nei campi specifici delle varie necessità sociali. Ricordo che, solo a Monselice, ora ne esistono più di una ventina che si occupano dalla protezione civile alla Croce rossa, dall’assistenza ospedaliera a quella delle malattie rare. Qui però desidero ricordare le suore che hanno operato, e che ancora in parte operano, in Monselice, per evidenziare l’importanza del loro lavoro nelle varie attività parrocchiali, e non solo, del nostro territorio, dove hanno dato un generoso aiuto alla cittadinanza nei campi più importanti dello sviluppo socio culturale. Dopo la seconda guerra mondiale, negli asili parrocchiali delle frazioni, nati a furor di popolo, si insediarono vari ordini di suore, oggi quasi tutti assenti da Monselice per mancanza di personale, ma fortunatamente qua e là sostituiti dalle amministrazioni comunale e statale. Rimangono però ancora efficienti nel nostro territorio le “Sorelle della Misericordia” di Verona e, in parte, le “Ancelle del Sacro Cuore”.

6.1 Le Sorelle della Misericordia di Verona

Le Sorelle della Misericordia hanno segnato a Monselice tappe basilari nell’assistenza ai malati, ai vecchi abbandonati e nell’insegnamento scolastico. Quest’ordine religioso, fondato da Luigia Poloni nel 1840, era presente fin dal 1865 a Monselice con alcune consorelle. La loro azione fu in continua espansione in molti campi e raggiunse il massimo di presenze e di attività attorno alla seconda guerra mondiale. Nel 1838 era sorto a Monselice, per la generosità della contessa Diana Grimaldi, il civico ospedale in via San Filippo. La gestione però si dimostrò difficoltosa per cui i Preposti dell’Ospedale ricorsero alle suore della Misericordia, che iniziarono la loro attività assistenziale agli ammalati durata poi oltre un secolo. L’ospedale nel 1865 fu spostato e ingrandito ai piedi della Rocca, in via Santo Stefano Superiore, nell’attuale villa Emo e fabbricati adiacenti. In quel periodo, a completamento delle funzioni ospedaliere, sorsero nello stesso luogo fin dal 1867 altre due organizzazioni umanitarie la Casa di Riposo e la Casa degli Esposti, che si espansero velocemente. Allora, per evitare intralci all’attività medica, furono cercate altre soluzioni sempre sostenute da quell’ordine religioso. Nacquero così la Casa di Riposo, ora chiamata “Centro assistenza anziani” al n. 35 di via Garibaldi, e la Casa per l’infanzia abbandonata al numero 61 della stessa via. Nel 1923 l’Ospedale civile passò nei fabbricati costruiti ex novo su un terreno di 90.000 metri quadrati tra le vie Marconi, Rovigana e Colombo. Circa trent’anni fa con la riforma sanitaria, le suore, ormai ridotte a un numero esiguo, cessarono la loro attività ospedaliera. Anche nella Casa di riposo la presenza delle suore cessò poco dopo, mentre l’assistenza all’Infanzia abbandonata era finita prima. L’azione delle Sorelle della Misericordia si sviluppò in modo incisivo e coinvolgente soprattutto nell’attività scolastica degli Istituti Buggiani e Poloni tuttora operanti. Quando l’ospedale si trovava in via San Filippo direttore era il medico Pietro Bianchi Buggiani, proprietario dell’immobile addossato al lato nord della chiesa di Santa Rosa. Egli e la moglie Anna Gaspari decisero di trasformare quel loro fabbricato in una scuola elementare femminile per “far crescere donne cristiane e operose”. Il Buggiani morì nel 1862 prima di veder realizzato il suo desiderio, però la moglie continuò l’iniziativa. Così nel 1865 arrivò, contemporaneamente alla cessione dell’immobile alle suore, l’approvazione della scuola da parte dello Stato e del Comune. Le lezioni iniziarono nel 1866 e continuano ancor oggi, seppure con qualche modifica. Era nato l’Istituto Buggiani. Al tempo di monsignor Angelo Cerato, arciprete dal 1946 al 1971, ebbi l’occasione di leggere la convenzione stipulata nel 1800 tra Parrocchia e Stato per l’esercizio di quell’istituto. Era scaduta e fu rinnovata. In pratica lo Stato aveva parificato quella scuola elementare con dieci insegnanti suore, sottoponendole al controllo dell’autorità governativa e pagando loro sempre e solo gli stipendi iniziali dello categoria, mentre tutta l’attività e l’uso dell’immobile dovevano essere controllati dalla Parrocchia. Ritengo che ancora oggi sia valida quella convenzione, anche se è stata aggiornata soprattutto perché insegnanti suore ora ve ne sono poche e sono aiutate da maestre laiche. Lo sviluppo più incisivo di quest’ordine religioso iniziò fra le due guerre e durò fino a vent’anni fa. Nel 1922 iniziarono a prestare servizio in un asilo di fortuna posto in alcuni locali vicini alla vecchia pretura di via Garibaldi, dove attualmente c’è la scuola per periti analisti. Nel 1924 l’asilo passò nella villa Tortorini, lasciata in eredità al Comune dalla contessa Cappello vedova Tortorini. Nel periodo fascista fu creato l’Ente Istituti Pii che raggruppava e coordinava gli enti morali diversificati di Ospedale, Asilo Tortorini, Casa di Riposo ed Eca (Ente comunale di assistenza), il cui presidente era quello dell’ospedale. Tutto questo fu soppresso una trentina d’anni fa. Un’altra scuola, dove le suore furono educatrici e coordinatrici, è stato il Solario Giorgio Cini, costruito per ospitare bambini deboli e bisognosi. Questa istituzione nacque nel 1936 per opera del concittadino conte Vittorio Cini e durò fino a venticinque anni fa, quando diventò una scuola pubblica a tempo pieno. Nel 1932 le suore comperarono da Massimo Saguati la villa Venier in via Buggiani e, nella primavera di quell’anno, chiamarono il capomastro Andolfo, al quale commissionarono i lavori di sistemazione, durante i quali egli chiese alla superiora il perché di quelle trasformazioni. Gli fu risposto che preparavano le aule per la scuola media femminile dell’istituto magistrale, giacché a Monselice c’erano solamente le tre classi complementari cioè le vecchie sesta, settima e ottava. Subito il signor Andolfo iscrisse la figlia Maria, che allora frequentava la quinta elementare, proprio dalle suore del Buggiani. Quella scuola fu denominata Istituto Poloni. Le suore però non riuscirono, dopo il quarto anno, a preparare anche i tre anni del corso superiore, per cui mia moglie arrivò al diploma andando a Padova. Intanto nel 1937 le suore avevano comperato il vicino ospedale per disabili, costruito dieci anni prima, che divenne sede dell’intero corso magistrale e anche di un educandato, sviluppando al massimo l’Istituto Poloni. Subito le vie di accesso cambiarono nome e nella via Buggiani ci fu l’entrata per le scuole elementari, in largo Carpanedo quella per le magistrali. Poco prima della seconda guerra mondiale le suore comperarono anche il teatro Massimo, adiacente all’ex ospedale. Durante la guerra lo sviluppo della scuola magistrale fu rallentato dalla requisizione dello stabile da parte dello Stato per uso ospedale militare. Dopo la guerra vi fu un intenso periodo di ricostruzione, eseguito dall’impresa Andolfo, per sistemare razionalmente i fabbricati di proprietà delle suore. Dapprima fu restaurata la villa Venier a metà degli anni cinquanta perché, requisita per gli sfollati, aveva bisogno di risanamento e ammodernamento. Fu così trasformata in abitazione per tutte le suore dell’Istituto Buggiani che vivevano precariamente nello fabbricato delle scuole elementari.

Poco dopo fu rialzato il corpo centrale dell’istituto Poloni che era più basso dei due corpi laterali. Furono create altre aule perché i corsi magistrali e l’educandato si svilupparono progressivamente. Poi fu la volta del teatro Massimo, chiuso da parecchi anni, che fu trasformato in palestra e sala giochi per le alunne delle magistrali. L’ultimo grosso impegno delle suore fu la costruzione di un nuovo edificio per le scuole elementari. Il vecchio, addossato alla chiesa di santa Rosa, fu abbattuto e ne fu costruito un altro all’interno del cortile verso via Tortorini. L’11 febbraio 1964 il Vescovo benedisse la prima pietra del plesso scolastico che fu costruito su tre piani, più un seminterrato, completo di dieci aule, una sala riunioni e locali di servizi vari. Cominciò a funzionare nell’anno scolastico 1966-67.

In questi ultimi vent’anni di profondi cambiamenti sociali, i nuovi interessi e stili di vita portarono una diminuzione di vocazioni religiose, per cui oggi tutte le loro istituzioni, compresi quindi anche gli istituti Buggiani e Poloni, si trovano in difficoltà, dovendo ricorrere a insegnati esterni. Questa situazione ha fatto anche aumentare i costi. Noi tutti però ci auguriamo che le difficili situazioni odierne siano solo temporanee e che le Sorelle della Misericordia di Verona riescano a trovare nuove possibilità per rimanere presenti nel mondo culturale cattolico di Monselice.

6.2 Piccole ancelle del Sacro Cuore

E’ un ordine religioso femminile fondato da monsignor Carlo Liviero nel 1916 quando era Vescovo di Città di Castello (Perugia). Carlo Liviero nacque a Vicenza nel 1866 e morì nel 1932 nella sua sede vescovile. Per il suo grande impegno di apostolato fu beatificato a Città di Castello il 27 maggio 2007. Visse la sua fanciullezza e giovinezza a Monselice, studiò nel seminario di Padova dove fu ordinato sacerdote a ventidue anni. Svolse la sua opera sacerdotale nella diocesi di Padova, prima a Gallio poi ad Agna, da dove passò direttamente alla sede vescovile di Città di Castello. Fu ripetutamente un iniziatore di attività religiose che intitolò sempre al “Sacro Cuore”. Una trentina d’anni fa vi fu un felice incontro delle responsabili delle Piccole Ancelle con i coniugi Angelo Schiesari e Maria Caramore di Monselice, una coppia anziana, ricca e senza figli che desiderava lasciare il proprio patrimonio a qualche istituzione al servizio della popolazione. La signora Maria Caramore possedeva una grande superficie urbana posta tra via San Giacomo e le attuali vie Fratelli Cervi e Monsignor Carlo Liviero. Nei primi anni 60 i due coniugi iniziarono a lottizzare il terreno, posto sul fronte di via San Giacomo, dove furono tracciate le vie San Francesco e Immacolata. A ricordo essi donarono al Comune di Monselice un riquadro di terreno, prospiciente la pubblica via, dove costruirono un nobile capitello dedicato alla Madonna Immacolata, la cui statua è posta su una colonna che ha un basamento in trachite euganea dove è incisa la dedica. Ai due coniugi rimasero poi un immobile sito su via Garibaldi e un altro in via Orti. Negli anni successivi riuscirono a trovare le soluzioni per soddisfare i loro desideri. Le Piccole Ancelle del Sacro Cuore di Città di Castello accettarono l’impegno di gestire due asili a Monselice. I coniugi, oltre ad soddisfare gli impegni verso la loro città, ebbero anche la gratificazione di portare a Monselice le suore dell’ordine istituito da un Vescovo che visse qui una parte della sua vita. Le due proprietà rimaste furono pertanto donate e trasformate a cura dei coniugi. In via Garibaldi al civico 57 attualmente c’è la casa direzionale delle suore con cappella, in via Monsignor Liviero l’asilo San Giuseppe e in via Orti l’asilo Maria Caramore. La zona di via Garibaldi e Monsignor Liviero fa parte della parrocchia di San Giacomo, mentre quella di via Orti è nella parrocchia del SS. Redentore. In questi anni anche l’ordine delle Ancelle del Sacro Cuore si trova in difficoltà nel gestire i due asili, mancando i ricambi di suore giovani. Ho ritenuto necessario richiamare i nomi dei donatori e quello del Vescovo perché sono stati cittadini di Monselice, e noi loro concittadini dobbiamo sempre ricordare chi ha saputo spendere i propri talenti per la collettività.

Capitolo 7

Storia di San Sabino

Lungo i secoli passati e fino all’ultima guerra del secolo XX, la storia di Monselice si è intrecciata con la devozione del nostro popolo per san Sabino è di tutto questo vi è una abbondante letteratura locale. Consultando alcune enciclopedie di Santi ho letto che almeno tre sono i san Sabino. Per questo credo utile e forse necessario delle precisazioni per indicare quale san Sabino fu venerato a Monselice. Un san Sabino fu vescovo di Piacenza nel quarto secolo e fu contemporaneo di sant’Ambrogio di Milano. Di lui l’enciclopedia non riporta nient’altro. Un secondo visse e operò nel sesto secolo a Canosa di Puglia ove fu vescovo. Questi fu amico personale di San Benedetto da Norcia e dei Papi del suo tempo. Fu stimato come uomo di dialogo e di pace tra oriente ed occidente. A lui è dedicata, fin dal 1102, la Cattedrale di Canosa; è pure venerato nella cattedrale di santa Maria Assunta di Bari fin da quando fu costruita tra il 1171 e il 1188 sulle rovine dell’antico duomo bizantino, distrutto nel 1150 da Guglielmo detto il Malo. Infine c’è san Sabino vescovo di Spoleto, martorizzato assieme a dei suoi compagni, sotto l’imperatore Massimiano 286 – 306. Quest’ultimo è il Santo venerato a Monselice e nel vicino paese di Torreglia. Per chi desidera dettagli sul rapporto tra il Santo e il nostro paese, rimando alla lettura di due edizioni stampate a Monselice in questi ultimi anni e facilmente rintracciabili nella nostra biblioteca comunale. Nel 1989 uscì un opuscolo di Flaviano Rossetto intitolato “Due Santi per una città, San Sabino e Santa Giustina”. Nel 1996 fu stampato il libro di Roberto Valandro intitolato “Un Patrono per una città, san Sabino, i luoghi e i protagonisti di una religiosità millenaria”. Il mio intento non è ripetere qui le vecchie tradizioni, anche se in fondo hanno il loro fascino e le loro simbologie, ma è quello di richiamare l’attenzione sull’importanza di questo Santo, come hanno fatto gli abitanti di Torreglia. Questo paese aveva la vecchia chiesa parrocchiale intitolata a San Sabino, sul colle Mira intitolato pure a San Sabino. La chiesa, che ha una storia millenaria, è ora ben salvaguardata come uno dei monumenti più insigni della zona collinare euganea. Il suo campanile è del 1500 con una impronta tardo medioevale, mentre la chiesa, che ha tracce scritte fin dal 1400, è stata più volte rimaneggiata nel ‘600 e nel ‘700. Nel 2004 il settimanale Famiglia Cristiana, rendeva noto che il gruppo culturale “La Perla” di Torreglia aveva istituito un premio di poesia religiosa intitolato a San Sabino. Così recitava quell’articolo: “La parrocchia di Torreglia ha voluto indire un premio per celebrare il valore spirituale di questo eremo antico e del suo Santo Sabino. Il premio a carattere nazionale si svolge ogni due anni…”. Per quanto riguarda questo Santo, visto tra storia e leggenda, si hanno le seguenti notizie. In un vecchio documento denominato “Passio Sancti Sabini” è descritto quale vescovo di Spoleto martirizzato assieme ad altri compagni, i santi diaconi Esuperanzio e Marcello e altri chierici, sotto l’imperatore Massimiano. Non è noto l’anno del martirio, invece la tradizione precisa che fu il 7 dicembre. Relativamente a questo documento gli studiosi dicono che esso, pur avendo pregi di stile chiaro e preciso, non ha valore storico; ma che è però una valida descrizione del culto che si rendeva al Santo come martire e dà anche testimonianza che esisteva una chiesa presso Spoleto a lui dedicata dove se ne celebrava la festa il 7 dicembre. Molto complicata è però la questione delle reliquie di san Sabino, chiamato spesso anche san Savino, perché numerose chiese si vantano di possederle. Si hanno notizie che il corpo fu portato a Ivrea nel 956; che poi fu in Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna nel 1266, infine a Fermo, Pescara, Siena, a Roma e in altri luoghi tra cui Monselice. Su di lui sono fiorite varie leggende; la più nota è quella di Fusignano, in quel di Ravenna, che è posteriore e diversa dalla “Passio Sancti Sabini” già richiamata. Per la leggenda di Fusignano il martirio sarebbe avvenuto sempre a Spoleto nel 236 sotto l’imperatore Massimino e non Massimiano. Dopo la sepoltura in questa città, sarebbe apparso un angelo alla pia donna Serena, ordinandole di portare il corpo nella Silva Liba di Fusignano perché fosse posto accanto alla salma della sorella Diocleziana. Successivamente nel secolo XV il signore di Faenza Astorgio II Manfredi, divenuto conte di Fusignano, fece trasportare l’urna del Santo nella cattedrale di Faenza. E’ per questa tradizione che la venerazione del Santo si sviluppò particolarmente in Emilia e Romagna, Toscana e Umbria, tanto che oggi in queste regioni vi sono località e paesi intitolati a San Savino che è, come già precisato, l’altra scrittura del nome attribuito al Santo. Nonostante vi siano tradizioni diverse, restano però alcuni punti di riferimento fondamentali per ogni versione. Il Santo fu vescovo di Spoleto, dove morì martire il 7 dicembre nel terzo o quarto secolo dell’era cristiana; soltanto il Martirologio Romano sposta il martirio al 30 dicembre. Nonostante vi siano incertezze sulla vita di San Sabino, penso che anche Monselice debba ricordarlo perché una parte della storia patria è legata a questo Santo. Non è possibile gettare nel dimenticatoio né il testo del 1489, riguardante le reliquie, redatto dal Vescovo padovano Pietro Barozzi, né la decisione del Consiglio Comunale di Monselice del settembre 1631 che deliberò, con 28 voti favorevoli e nessuno contrario, di considerare san Sabino protettore della città. Infatti aveva ritenuto che per l’intercessione di questo Santo fosse cessata la terribile pestilenza, che colpì anche il Veneto, descritta da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Noi monselicensi non dobbiamo dimenticare la consuetudine della celebrazione annuale di San Sabino, nata nel 1631 e finita per motivi contingenti durante l’ultima guerra. Dobbiamo ripristinarla per riscrivere la nostra storia e onorare nel contempo san Sabino che fu certamente uno dei più famosi Vescovi martiri. D’altra parte oggi è un rifiorire di feste in ricordo del passato perché è nell’immaginifico popolare ricordare e far rivivere coloro che ci hanno preceduti nei secoli trascorsi. Da oltre vent’anni in settembre si celebra a Monselice la Giostra della Rocca che, pur non essendo legata a nessuna tradizione locale, richiama tanta gente, mentre dimentichiamo la solenne cerimonia in onore di san Sabino che per secoli ha coinvolto i cittadini e i fedeli di questa città. Mi auguro quindi che Monselice ripristini, con l’interessamento di Chiesa e Amministrazione Comunale, l’antica cerimonia possibilmente nella tarda primavera, per diversificarla dalla settembrina giostra della Rocca.


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