LOREDANA OLIVATO, Percorsi devozionali ed esibizione del potere: Vincenzo Scamozzi a Monselice tratto dal libro Tra monti sacri e sacri monti e santuari: il caso Veneto, edito dal Poligrafo.
Certamente il 1582 fu per le fortune veneziane di Vincenzo Scamozzi un anno cruciale. Il 5 aprile, infatti, le autorità serenissime accoglievano il progetto per l’edificazione, nella platea marciana, il luogo più prestigioso della Capitale, del primo tratto delle Nuove Procuratie che l’architetto aveva presentato (1). Si trattava di un’affermazione di consistente evidenza: Vincenzo veniva, infatti, a proporsi, dopo il prestigioso precedente di Jacopo Sansovino e venendo prescelto dagli stessi protettori e sodali di Andrea Palladio, come privilegiato interlocutore per la definizione ultima dell’invaso su cui si affacciava la basilica di San Marco, il più significativo spazio pubblico della città, destinato a perenne celebrazione della grandezza veneziana, ma in rapporto diretto e scopertamente emblematico con i valori di religiosità e devozione di cui la basilica era investita anche a livello di memoria e cultura collettive. Lo scontro che avverrà sulle scelte da operare nel rinnovamento e nel completamento della piazza metterà in campo forze politiche ben precise (e i cui epigoni ritroveremo nel seguire la carriera di Vincenzo) che si affronteranno, vuoi sostenendo le ragioni di fedeltà e adeguamento ai principi emanati dalla curia di Roma, vuoi affermando le ragioni dell’indipendenza e dell’autonomia, giuridiche nonché legislative, della Repubblica.
Ma perché fu proprio il nome di Vincenzo a prevalere? Fino a quel momento aveva lavorato fuori dalle lagune, progettando per i Pisani la splendida Rocca o per i Trissino, a Vicenza, il palazzo nei pressi del duomo (2). Ma senza mai apparire fra la folla dei proti veneziani cui toccavano le opere di ordinaria manutenzione locale.
Certamente una parte non secondaria nel designare il nome dell’architetto vicentino dovette toccare a Marcantonio Barbaro che, nel 1581, era stato eletto Provveditore sopra le Nuove Fabbriche ed era il fratello di quel Daniele che aveva edito, con un fitto commento e giovandosi appunto della collaborazione di Andrea Palladio, nel 1566, I dieci libri sull’architettura di Vitruvio.
Ed entrambi erano stati committenti di Andrea per la splendida residenza suburbana di Maser e l’adiacente tempietto. Non solo: sul nome di Vincenzo vedremo convergere anche l’assenso dei Contarini – ove Jacopo era stato in rapporti di stretta amicizia con Andrea al punto da venir designato come destinatario dei disegni lasciati dal maestro – che, per quasi trent’anni, risultano impegnati nel tentativo di stabilire, con i destini architettonici e di sviluppo urbano della città, anche l’asse di un possibile sviluppo politico; e che sono comunque legati ai Barbaro dalla comune vocazione antiquaria, da un interesse esplicito e ribadito per la tradizione e il recupero dell’antichità romana.
E il nodo è, a mio giudizio, proprio qui. Le ragioni della concordanza su Vincenzo vanno ricercate, al
suo rientro in quel provvidenziale momento, proprio nel suo precedente soggiorno nell’Urbe che era iniziato a partire dal 1578. E non era rientrato a mani vuote. Egli recava con sé non solo i preziosi rilievi e gli appunti sulla tipologie di una romanitas trionfante, cioè di un’architettura ‘parlante’ anche sotto il profilo politico o, almeno, di patente politica culturale, ma anche l’inedito (e oggi scomparso) trattato di prospettiva che Jacopo Contarini ebbe agio di leggere e di apprezzare al punto di ritenere proprio Vincenzo il vero erede dell’architettura palladiana e il destinatario ideale di quei disegni che Andrea gli aveva a suo tempo legato (3)
Di questa importante esperienza primo frutto erano state le due tavole incise da Marco Cartari e raffiguranti le Terme di Antonino e di Diocleziano dedicate a Giovanni Cornaro, ambasciatore della Repubblica presso papa Gregorio XIII. Impresa ambiziosa che mirava proprio a qualificare Scamozzi, entro l’ambito della possibile committenza veneta, come il più aggiornato interprete del linguaggio architettonico “moderno”, quello cioè ispirato alla “vera bellezza e leggiadria degli antichi”.
In quest’ordine il secondo esito sarà ben più dirompente e consisterà nella pubblicazione dei Discorsi sopra l’antichità di Roma, che l’editore Girolamo Porro dava alle stampe proprio nel 1582, dedicando l’opera – la circostanza non è da trascurarsi – proprio al “Carissimo Signor Giacomo Contarino”.
Tralasciamo in questa sede – ne abbiamo già ampiamente trattato 4 – il problema delle illustrazioni al testo, dovute al bulino di Giovan Battista Pittoni. Si tratta di una spregiudicatissima operazione di mercato che consistette nel furto di immagini precedentemente e da altri incise e stampate. Le pur affascinanti tavole risultavano (anzi, risultano oggi) riprese pari pari dai Precipua aliquot Romanae antiquitatis ruinarum monimenta…, stampati ad Anversa da Hieronymus Cock nel 1551 e successivamente ripubblicati dieci anni dopo con una nuova serie di dodici tavole aggiunte.
Ma ciò che ci interessa osservare è lo straordinario e dottissimo corredo di annotazioni con cui Vincenzo arricchisce il volume. Che attestano la sua qualifica indiscussa di studioso competente ed agguerrito sul mondo dell’antichità, su Roma, i suoi scrittori, la sua storia. Ma non vorremmo indugiare oltre.
In sostanza, e per riassumere quanto siamo venuti sin qui osservando, la conoscenza della romanitas e la competenza scientifica ed erudita ci appaiono come le ragioni di fondo che possono aver motivato la scelta di Vincenzo come quella del prosecutore aggiornato del programma di rinnovamento urbano che Venezia imposta ancora a partire dagli anni del dogado di Andrea Gritti e che, proprio sullo scorcio dell’ottavo decennio del secolo, andava caricandosi di ulteriori significati a motivo del contrasto che opponeva, nella classe politica veneziana, i “zoveni” ai “vecchi”: contrasto che di lì a poco sarebbe esploso nella correzione del 1582, con il ridimensionamento del potere del Consiglio dei Dieci e, conseguentemente, con una grave perdita di prestigio da parte degli esponenti delle famiglie maggiormente legate alla corte pontificia, di cui facevano parte, appunto, Marcantonio Barbaro, Giacomo
Contarini e Giovanni Cornaro. Ma sospendiamo per il momento questa lunga premessa. Nel lontano 1974 Lionello Puppi ed io rinvenimmo nei fondi di disegni della Biblioteca del Museo Correr a Venezia una sequenza di grafici (schizzi progettuali, planimetrie, appunti per il cantiere ovvero disegni puliti da presentare ai committenti) riconducibili alla mano di Vincenzo (o comunque di matrice scamozziana) e a una specifica committenza, quella dei Duodo; disegni in particolare dedicati alla residenza extra-urbana da questi posseduta in Monselice (5).
Non credo sia il caso di tornare su una puntuale esegesi di quei testi grafici che sono di recente stati ulteriormente ragionati in occasione della mostra scamozziana dedicata dal Centro “Andrea Palladio” di Vicenza al nostro architetto (6).
Con alcune ulteriori e condivisibili specificazioni; e anche sulla base di nuove acquisizioni documentarie apportate dalla ricerca di Nadia Munari che identificava ben otto delle planimetrie – su cui a suo tempo
noi avevamo solo avanzato delle timide proposte di lavoro – riuscendo a collegarle con un acquisto avvenuto nel 1598 di una proprietà Gritti a Monselice (di cui si prevedeva il riassetto che Vincenzo, appunto in quei disegni, propone).
Ripercorrere l’analisi dei testi grafici di cui sopra sarebbe ozioso e, in questa sede, eccessivo. Mi permetto, tuttavia, di soffermarmi, anche solo brevemente, su alcuni dettagli. Problematica appare la recente retrodatazione della villa che, sempre sulla base delle acquisizioni documentarie della Munari (7) (che non ci sembrano tuttavia definitive e inappellabili), viene spostata a momento situato fra 1589 e 1590 (mentre per noi si poneva al 1592), sulla base di un programma edilizio complessivo che i Duodo avrebbero organizzato in corrispondenza con i lavori che in quegli anni stavano finanziando nella chiesa veneziana prescelta come sede funeraria familiare, cioè in Santa Maria Zobenigo, nei cui pressi sorgeva il palazzo domenicale di loro pertinenza fin dal Trecento.
Beninteso il problema – che non è poi così sostanziale – riguarda, almeno in apparenza, il committente, che non sembra essere più Pietro di Francesco Duodo bensì i fratelli, all’epoca ancora in vita, Francesco appunto (morirà nel 1592), e Domenico (morirà nel 1597) (8) Senza volerci addentrare in minuzie filologiche e nella lettura efferata di documenti, a mio avviso non decisivi, mi pare che la questione sia facilmente risolvibile (9).
Certamente l’impresa che prevede la ristrutturazione della villa e della chiesetta di San Giorgio viene portata a termine sulla base di un preciso compito di autocelebrazione familiare che i Duodo si assumono nel momento in cui si decide (e certo avviene molto per tempo e prima del 1592 o addirittura del 1589) il riassetto del complesso di Monselice. Ed è un programma che di sicuro coinvolge i fratelli Francesco e Domenico ma che il figlio Pietro e, tanto più avanti, nel XVIII secolo, l’ambasciatore Nicolò ulteriormente modificano. Programma che noi oggi leggiamo come un’esplicita dichiarazione politica, una presa di distanza – si direbbe – dal consueto esercizio di governo della Repubblica sul piano strettamente giurisdizionale che porterà fatalmente alla crisi dell’Interdetto del 1606.
Sappiamo che da tempo i Duodo acquistano terre nel territorio di Monselice. La denuncia d’estimo risalente al 1533 di Francesco di Pietro (padre del Pietro che poi vedremo in strettissime relazioni con Scamozzi) parla di oltre cento campi nella zona dove possiedono (attestata dagli estimi sin dal 1519) una casa con orto e brolo che usano “per comodità di riscuotere le entrade delle nostre […] possessioni”: casa, come ha provato la Munari, situata sul colle e a partire dalla quale, e sulla quale, verrà poi realizzata la tanto più imponente villa. Ancora, abbiamo provato che il 26 ottobre 1589 vengono acquistati altri appezzamenti “nel luogo detto la Rocchetta di San Giorgio, posta sopra il monte di Moncelese territorio di Padova” cui si aggiunge, in novembre, il vicino “torresin” con altri appezzamenti sempre “appresso il castel di San Zorzi” e altri “vignali” in quei pressi, acquisiti nel maggio 1590 e nell’agosto 1591. All’interno della proprietà dovevano essere compresi anche i ruderi dell’antica chiesa di San Giorgio di cui un breve di papa Clemente VIII il 12 novembre 1592 consentirà a Pietro Duodo la ricostruzione come “capellam privatam prout solitum erat in palatiis et privatis aedibus” e che, viceversa, sarà poi riedificata con ben altri e più ambiziosi propositi (10.)
Ancora una volta sospendiamo le ipotesi su quale doveva essere l’originale progetto scamozziano che poi sarà sconvolto dai successivi, più tardi rimaneggiamenti. Certo è che nel 1597 i lavori dovettero essere portati a termine e la fabbrica risultare agibile dal momento che sull’altare si collocava la pala; pochi anni dopo, nel 1602, il vescovo Marco Cornaro, nella sua visita pastorale, descriveva il tempio “pulcherrimum et rotundum cum cuba”, forse vicino ad altre invenzioni scamozziane di quegli anni che costituiscono ripensamenti tipologici sul tema della pianta centrale come la chiesa della Celestia a Venezia o quella di San Gaetano a Padova.
Né entriamo nel merito dell’intrigante disegno planimetrico del Correr che l’Urbani, nell’Ottocento, riteneva autografo di Vincenzo e preparatorio per la riedificazione della chiesetta. Anche la scheda della recente mostra vicentina dedicata al nostro architetto non prende posizione al riguardo, limitandosi a considerare plausibili le proposte da noi avanzate: o che si tratti di un ben più avanzato progetto relativo agli interventi di Girolamo ovvero che ci si trovi davanti ad una variante progettuale di Scamozzi che prevedeva un ribaltamento e una revisione del primitivo (e appena rifatto) tempietto in vista del nuovo significato che il complesso, per volontà di Pietro Duodo, veniva ad assumere.
Si data al 12 novembre 1605 il breve di Paolo V che consente al “diletto figliuolo Kavalier Pietro Duodo patrizio veneto [affinché] faccia edificare a proprie spese una certa chiesa sotto il titolo di San Giorgio Martire nel castello di Monselice”. Il documento risulterebbe ben oscuro (ma la chiesetta non era appena stata ricostruita?) se non lo leggessimo integralmente e non cogliessimo che, oltre alla rifabbrica, veniva concesso al richiedente uno specifico beneficio. Chiunque infatti avesse visitato il tempietto (non più cappella privata, ma luogo di culto aperto al pubblico) e le sei cappelline votive che costituivano le tappe di un itinerario sacrale di pellegrinaggio, “erectas seu erigendas” (dunque già in fase di definizione), avrebbe goduto, purché avesse pregato Dio “per la concordia de Principi Christiani, estirpazione delle eresie et esaltazione della Santa Madre Chiesa”, degli analoghi benefici spirituali accordati ai pellegrini che a Roma compivano il percorso delle sette basiliche maggiori, di cui appunto le cappelle assumevano – emblematicamente – il nome: Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano, Santa Croce di Gerusalemme, San Lorenzo, San Sebastiano, Santi Pietro e Paolo (11).
Un cambiamento non da poco in rapporto al primitivo impianto di pura autocelebrazione familiare unita alla sorveglianza e allo sfruttamento del territorio – che costituiva una parte non irrilevante dei cespiti della famiglia – che il primo intervento scamozziano comportava.
Cosa era accaduto nel frattempo per imporre siffatto virage? Le ragioni di tale metamorfosi sono forse recuperabili nel leggere le trame che la storia ha composto.
Soffermiamoci brevemente sul cursus honorum e le imprese di Francesco, padre di Pietro. Sappiamo dei suoi prestigiosi incarichi politici e militari che lo coinvolsero in particolare nelle lotta
contro il Turco e che lo videro protagonista nella vittoria di Lepanto. Son noti anche i suoi interessi ‘scientifici’ per l’arte militare e l’artiglieria in particolare, ove restano suoi scritti tecnici sul modo di migliorare la resa delle armi di cui dotare la flotta e sul più corretto uso dell’Arsenale veneziano. Ma val la pena rilevare come, eletto fra i Procuratori de ultra nel 1587 per gli importanti servizi resi alla patria, ebbe fino all’ultimo l’opposizione del partito dei “giovani” che gli rimproveravano apertamente le prese di posizione a favore della Roma papale. Nel suo testamento, steso nel 1592, chiedeva che il busto in marmo che lo raffigurava, opera del Vittoria (come il modello in terracotta del Museo Correr), allora conservato nel palazzo di Venezia, fosse esposto sopra la sua tomba in Santa Maria Zobenigo, accanto all’altare di San Francesco, con le bandiere che ricordavano le sue vittorie militari12. E se lo Stringa ci assicura che, a lato dell’altare in questione, le bandiere furono di fatto appese tanto da essere infatti da lui segnalate, il busto non fu traslato nel luogo sacro, ma rimase bensì nel palazzo domenicale per passare poi alla villa di Monselice, dove fu esposto nel memorial di famiglia accanto a quelli di Pietro e di Domenico per volontà del nipote, Alvise, nel 1663; e fu poi donato, all’inizio del secolo scorso, dai conti Balbi Valier, allora proprietari della villa, alle Gallerie dell’Accademia (oggi alla Ca’ d’Oro). Una curiosa vicenda che lascia intravedere, forse, il timore delle autorità veneziane per un’eccessiva esaltazione della figura del condottiero, tanto eterodosso nelle convinzioni politiche da non meritare una pubblica consacrazione in un tempio che già era stato oggetto di perplessità ed aperte proteste (la facciata è dedicata all’apoteosi del generale Antonio Barbaro).
Torniamo all’esecuzione delle cappelle che, iniziate a partire dal 1606, dovettero certo essere concluse nel giro di pochi anni se il testamento di Alvise Duodo, zio di Pietro, le descrive come agibili e frequentate. Scamozzi le articola secondo un percorso ascensionale a loro riservato, che non interferisce con il transito alla villa. Si tratta di una scalinata che si inerpica sulla collina lungo i cui fianchi, in nicchie all’uopo ricavate, si ritrovano, ad intervalli regolari, i piccoli edifici; progettati, ancora una volta, guardando all’antico sulla base di tipologie che al mondo della Roma classica si rifanno, variando la composizione secondo un ritmo che alterna piante quadrate a piante a croce, muta gli ordini adottati (toscano,
ionico, composito) in modo da creare una continua alternanza di forme e induce il pellegrino a scoprire (a voler scoprire) la tappa successiva del percorso. Che ne risulta tutt’affatto trasfigurato nella conferma asserita e vantata di una devozione familiare che riesce a tramutare la natura (il colle, cioè) in una visione di trascendenza riferita al mito perenne di Roma, Roma antica la cui gloria ancora rifulge nella grandezza del potere papale che dell’Urbe aveva saputo raccogliere l’eredità e il significato e tramandarli nei secoli alla luce del rinnovamento cristiano del mondo civile.
Monselice, dunque, come modello, rimpicciolito ma essenziale, della Roma cristiana dove le simboliche sette basiliche maggiori erano in grado di dispensare ai fedeli i doni – non più solo virtuali – che la devozione comportava.
Vincenzo Scamozzi – Monselice
L’occasione del nostro intervento non ci consente di percorrere le tappe della lunghissima e lusinghiera carriera di Pietro Duodo: non c’è che da rimandare alla dettagliata ed illuminante voce del Biografico, redatta, con competenza e passione, da Gino Benzoni (13).
Ci basti annotare come, in una vita dedicata ai viaggi, alle ambascerie e ai rapporti con le corti straniere, egli trovi il tempo per frequentare i circoli dotti dello Studium patavino, la scuola aristotelica che colà si esprime, risultando frequentatore di personaggi quali il Lollino, il Pinelli, la scuola di Francesco Piccolomini, di cui sarà grande ammiratore. Come ammiratore sarà di Galileo Galilei.
E dobbiamo sorvolare sull’Accademia Delia di cui, a Padova, essendo Capitano della città nel 1607, l’anno successivo fu il fondatore. Ove ancora una volta sono le scienze a prevalere, le matematiche, la geometria e la stereometria, la meccanica, l’uso di “machine et instrumenti”, e in cui avrà ancora una volta al fianco il fidato Scamozzi ad approntare i disegni per la fabbrica della nuova sede.
Dobbiamo anche sorvolare sul suo ruolo di mediatore nel momento cruciale della crisi dell’interdetto presso la corte pontificia. Esaltato dalle fonti come personaggio essenziale nella politica della Serenissima e ridicolizzato quasi dagli storici più recenti, mi pare sia stato ultimamente riconsiderato con attenzione. E se il suo ruolo presso Paolo V, con l’ambasceria straordinaria inviata da Venezia nel 1605, non sembra di rilievo (e il nostro pare preoccupato più di assicurarsi il breve pontificio per la “via sacra” di Monselice che di convincere il nuovo pontefice a mutar opinione riguardo al governo serenissimo), ben diverso appare il suo impegno, l’anno successivo, quando, non per caso ma proprio per i suoi dichiarati legami con l’Urbe, viene prescelto come ambasciatore straordinario alla Santa Sede nella speranza che la benevolenza dimostratagli dal pontefice si traduca in un meno rigido atteggiamento nei confronti dello stato ribelle. I suoi sforzi – ove la costante del suo comportamento, nonostante i convincimenti morali e religiosi, resta tuttavia di ammirevole coerenza con la fedeltà alla patria – furono vani ed egli fu costretto, nell’aprile 1606, al rientro fra le lagune, a preoccuparsi per evitare lo scontro diretto con Roma e a cercare in tutti i modi la fine della contesa.
Ma, per tornare al nostro punto di partenza, certamente fu Pietro Duodo a influenzare e a pesare consistentemente sulla formazione e la cultura di Vincenzo Scamozzi che, dopo gli anni trascorsi nel collegio vicentino dei Padri Somaschi, ricevette dal nobiluomo stimoli importanti nella direzione di una preparazione culturale che affiancasse gli studi letterari e dotti alle discipline scientifiche, agli studi meccanici, alle scienze naturali. Sappiamo che Pietro, eletto rappresentante della Repubblica presso la corte imperiale, partiva per Praga nel 1599 con un vasto seguito cui si affiancava, curioso ed interessato, il nostro architetto e di cui abbiamo memoria nel testo del Taccuino che ci è pervenuto (14).
Sarà nelle pagine dell’Idea che Scamozzi ricorderà, con nostalgico rimpianto, gli anni del soggiorno romano spesi ad abbeverarsi con lo “studio delle Matematiche e dell’antichità”.
Allora chè di subito giunti, stando sulla costa del Campidoglio, e vedere quella occhiata verso Campo vaccino, et a destra e sinistra quelle tante rovine vicine, e lontane sino al Coliseo, e più oltre, sparse su per quei colli […] dal che rinvenuti in noi, ci rendessimo molto certi delle cose raccontate dagli antichi scrittori […] e perciò si può molto ben dire Roma quanta fuit ipsa ruina docet.
La frase, che è citazione serliana, si pone a tramite tra il pensiero medievale sulla caducità della potenza e grandezza umane e il recupero filologico delle stesse che può insegnare non solo a ritrovare l’immagine vera della Roma antica ma anche a tradurre nel presente e a rinnovare la lezione di quel grande passato.
Non è per caso, a mio giudizio, che nel disegno con la facciata della villa di Monselice di cui abbiamo già detto e che riporta la scritta “Nova Liberalitate Veteres Instauratae Ruinae” torni questo stesso termine, ruina. Che i Duodo, illuminati dalla luce della fede nonché dalla conoscenza che lo studio dell’antico, l’erudizione, l’uso delle tecniche e delle scienze moderne hanno loro concesso, decidono di instaurare, per trasmettere (docere) ai propri visitatori la grande lezione che le rovine (quelle dell’antica rocca, ma per
traslato quelle del passato comune) ancora conservano. La tenace filologia di Vincenzo, la sua vastissima erudizione, la molteplicità dei suoi interessi si rivelano, infatti, momento di innovazione, approdo certo ad una consolidata conoscenza del mondo classico, base per ulteriori, ma non ravvicinati, approfondimenti.
NOTE
(1) Basti citare l’ancor validissimo M. TAFURI, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985, in partic. le pp. 252-271.
(2) Sull’attività di architetto di Vincenzo si veda il catalogo della mostra, allestita dal Centro internazionale di studi di architettura “A. Palladio” di Vicenza (7 settembre 2003 – 11 gennaio 2004): Vincenzo Scamozzi 1548-1616, a cura di F. BARBIERI – G. BELTRAMINI, Venezia 2003, passim, cui si rimanda anche per ogni precedente referenza bibliografica.
(3) Sulle vicende dei disegni palladiani si veda il dotto e ricchissimo saggio di L. PUPPI, Palladio. Corpus dei disegni al Museo Civico di Vicenza, Milano 1989.
(4) Sui complessi problemi relativi all’edizione delle Antichità di Roma, mi permetto di rimandare alla mia introduzione alla ristampa anastatica del testo del 1582: “Quantum Roma fuit ipsa ruina docet”. L’itinerario romano di Vincenzo Scamozzi, in V. SCAMOZZI, Discorsi sopra l’antichità di Roma. 1582, Milano 1991, pp. IX-XXVIII, integrato dal più recente L. OLIVATO, Attorno a Vincenzo Scamozzi: Girolamo Porro editore delle Antichità di Roma, in Arti a confronto. Studi in onore di Anna Maria Matteucci,
a cura di D. LENZI, Bologna 2004, pp. 175-182. Per un approccio squisitamente ed esclusivamente ‘archeologico’ all’edizione cfr. M. DALY DAVIS, Discorsi sopra le antichità di Roma (1582), nel catalogo Vincenzo Scamozzi…, cit., pp. 234-236, n. 15.
(5) Cfr. L. PUPPI – L. OLIVATO, Scamozziana. Progetti per la ‘Via Romana’ di Monselice e alcune altre novità grafiche con qualche quesito, “Antichità Viva”, XIII (1974), 4, pp. 54-80.
(6) Cfr. nel catalogo Vincenzo Scamozzi…, cit., le schede redatte da A. Augusti, G. Beltramini, S. Vendramin, pp. 301-319, nn. 34.1-34.3e.
(7 ) Cfr. N. MUNARI, Problemi scamozziani, tesi di laurea, rel. prof. M. TAFURI, Istituto Universitario di Architettura di Venezia, a.a. 1984-1985.
(8) Sulle genealogie dei Duodo basti rimandare alle estese e documentate voci di G. GULLINO (su Andrea, Cristoforo, Francesco di Pietro e Francesco di Alvise, Girolamo e Girolamo da Santa Maria Zobenigo, Nicolò di Pietro) e di G. BENZONI (su Pietro) nel Dizionario Biografico degli Italiani, 42, Roma 1993, pp. 26-54.
(9) Tengo tuttavia a sottolineare che non ho conoscenza diretta della tesi della Munari e parlo sulla base di quanto è stato da altri riferito: in particolare nel più volte citato catalogo della mostra vicentina del 2003-2004.
(10) Tengo a precisare che il 1592 è anche l’anno della morte di Francesco, che tuttavia viene esplicitamente nominato nell’atto con il fratello Domenico, a significare che di una volontà familiare si trattava e non dell’exploit di un singolo. Ho il piacere di ringraziare il prof. Mario Sensi che, nell’occasione del Convegno, ha diffuso fra gli studiosi presenti copia dell’atto originale.
(11) A proposito delle indulgenze concesse si veda quanto ragiona, in questo stesso volume, Mario Sensi. Ma, ancora, sui problemi della devozione religiosa relativa al Monte di Monselice cfr. l’interessante volume di R. VALANDRO, Il monte sacro di Monselice. Un itinerario giubilare euganeo, Monselice 2005.
(12) Sulla scultura vedi la scheda di T. MARTIN nel catalogo della mostra tenutasi a Trento nel 1999: “La bellissima maniera”. Alessandro Vittoria e la scultura veneta del Cinquecento, a cura di A. BACCHI – L. CAMERLENGO – M. LEITHE-JASPER, Trento 1999, p. 298, n. 58.
(13) Cfr. supra, n. 8.
(14 ) Sul Taccuino si veda la scheda riepilogativa di J. GUILLAUME nel catalogo Vincenzo Scamozzi…, cit., pp. 391-393, n. 57, con le referenze bibliografiche precedenti. Ma, a latere, vedi anche L. COLLAVO, Sic ad aethera virtus: del Trattato d’Architettura di Vincenzo Scamozzi, “Il Veltro”, 1-2 (2004), pp. 29-79.
Info sul Grande architetto https://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Scamozzi
Studi sullo Scamozzi
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