Quando Monselice era la capitale dei giocattoli. Bambole Franca: da Cicciobello a Magamaghella, passando per i Puffi
Intervista a Franca Cascadan – C’è stato un lungo periodo, prima che il secolo breve tramontasse, in cui Monselice era la capitale del giocattolo. Dalle fabbriche e dalle botteghe artigiane della Bassa Padovana uscivano milioni e milioni di pupazzi, tricicli, trenini, automobiline a pedali. Soprattutto bambole, soltanto la Effe ha prodotto 5 milioni di bambole ogni anno, per trent’anni di fila. Erano i tempi del miracolo economico e poi quelli di un’Italia che non si arrendeva. I giocattoli erano il regalo di Natale, la sorpresa di Pasqua, il dono del compleanno. E la televisione, quasi sempre in bianco e nero offriva nuovi eroi all’epopea del giocattolo, prima Topo Gigio e Maghemaghella e, poi, robot, giganti con alabarda spaziale, dischi volanti che si illuminavano. Infine i Puffi blu che si riproducevano a milioni. Quando il videogioco e la concorrenza asiatica uccisero quella fantasia, Monselice chiuse capannoni e botteghe. Dove c’era la fabbrica delle Bambole Franca con centinaia di dipendenti, terza in Europa per grandezza, e con un fatturato di 12 miliardi di lire, oggi c’è un centro commerciale. Per conservare la bellezza di quel passato qualcuno pensa a un Museo della Bambola e del giocattolo.
Franca Cascadan, 90 anni appena compiuti, è testimone di quel passato. La chiamano la signora delle bambole: ha creato lei Maga Maghella resa popolare dalla Carrà e anche Cicciobello. Sposata con Erminio Margiotta di Brindisi che giocava terza linea con la maglia delle Fiamme Ore rugby di Padova, ha vinto qualche scudetto di fila tra gli anni ’50 e ’60 ed è stato anche convocato in azzurro. Tre figli: Rita, Marco e Simone, tre nipoti. Marco è stato nazionale di pallamano. La signora delle bambole ogni domenica va a pranzo con le sue amiche, molte sono ex dipendenti. Guida la sua auto: «Avevo anche la patente C che una volta mi serviva per girare Italia e Svizzera con furgoni pieni di giocattoli. Me l’hanno declassata a B per via dell’età».
Signora Franca una vita per le bambole?
«Ero una giovanissima artigiana, già nel 1952 facevo piccole bambole di tutti i tipi e le vendevo ai turisti che venivano a Monselice da Abano e dalla zona termale. Non facevo le solite, quelle che si sistemavano sul letto, col tulle attorno. Vestivo le mie bambole nei costumi caratteristici: le olandesi, le tirolesi Mamma Mafalda, che era una grande sarta, ci aveva iscritto da bambine al dopolavoro delle suore, dove abbiamo imparato a ricamare. Ho imparato dalla mamma e credo bene se, quando abbiamo fatto in fabbrica le bambole vestite con la linea Pierre Cardin, gli assistenti del grande sarto mi hanno proposto di andare a lavorare a Parigi. Ma torniamo alle nostre bambole: nel dopoguerra sono venuti quelli di Solesino che andavano in giro per l’Italia a comprare il ferro vecchio e in cambio davano le bambole, così ne acquistavano tante. Era un’Italia povera quella del dopoguerra, una bambola era un regalo sognato da molte bambine. Mio fratello Franco lavorava nel porto di Venezia coll’escavatore di famiglia, ne profittava per vendere le bambole ai marinai che ne chiedevano sempre di più. Aveva il senso degli affari e parlava il tedesco».
Da artigiani diventano imprenditori
«Grazie a Franco che è diventato il manager di quella che sarebbe stata la nostra azienda, una volta è volato negli Usa per comprare all’ingrosso il tulle occorrente a vestire le bambole da camera. Era tanto caro che conveniva andare in America. Papà Luigi era un imprenditore di trasporti e di cave di trachite a Monselice, c’è stato un dissesto e siamo rimasti senza niente. Io ero la più grande di quattro sorelle e Franco era già all’università. Il mondo si è capovolto. Ho incominciato ad assemblare e vestire le bambole che erano fatte a pezzi: compravo le componenti grezze da una ditta lombarda e le richieste erano così tante che è venuto l’ingegnere da Milano per offrirci l’acquisto di migliaia di pezzi dandoci un bel respiro per il pagamento. Da lì è iniziata la nostra espansione, l’imprenditorialità era in noi. Allora a Monselice c’erano tante piccole realtà, lavoravano tutti per fare qualcosa da vendere ai villeggianti delle Terme. Siamo partiti con un milione di lire avuto in prestito e con un parente che ci aiutava a scontare le cambiali, per commerciare ci voleva liquidità, bisognava pagare tutti i mesi gli operai in contanti. Le donne erano in maggioranza, tra sartoria e montaggio solo io ne avevo più di trecento. Gli autisti erano tutti maschi, avevamo comprato camion che portavano le nostre bambole in tutta Italia. I nostri pullmini ogni mattina passavano a prendere gli operai a Bagnoli, Conselve, Rovigo, Stanghella e la sera li riportavano a casa. C’era anche la mensa aziendale».
Quando è nata la ‘Bambole Franca’ ?
«La Bambole Franca è nata nel 1953 ed è diventata Effe Bambole nel 1960 con l’acquisto di forni per le materie plastiche. Facevamo tutto per conto nostro, non dovevamo comprare componenti in giro per l’Italia, eravamo in grado di arrivare al prodotto finito. Col tempo abbiamo anche diversificato: biciclette e tricicli, carrozzine, macchinette a pedali e anche i peluche. A un certo punto avevamo un migliaio di dipendenti tra interni e esterni e attorno c’era un grosso indotto. I binari della ferrovia arrivavano fino alla fabbrica, ogni giorno partivano sette vagoni carichi e in ogni vagone c’erano tremila bambole. La nostra espansione maggiore è stata tra gli anni ’50 e ’60, col boom economico, spedivamo bambole in tutto il mondo».
Quali sono le bambole più famose
«Ho lavorato anche per la televisione, allora c’era solo la Rai e tutto in bianco e nero, andavo a Roma quasi ogni settimana. La bambola Fanella lanciata da Raffaele Pisu era nostra. Come pure Maga Maghella legata alla Carrà e alla sua canzone. Era nostra anche Susanna che veniva regalata con i punti di chi acquistava un famoso formaggino ed era protagonista di un Carosello. E Cicciobello. I primi pupazzi dei Puffi li abbiamo fatti noi. E anche la serie dei pupazzi dei campioni del calcio, da Rivera a Mazzola, a Riva e Juliano. I pupazzi e i peluche li facevamo con le mie sorelle Luisa e Adriana».
Quando è finito quel mondo
«Con gli anni Ottanta. Forse con l’arrivo dei cinesi che hanno invaso il mercato a prezzi bassi, ma non solo per quello: la Barbie, per esempio, era fatta in Cina e offriva prezzi con i quali era difficile competere. Ma la nostra crisi delle bambole è incominciata davvero con l’avvento di Khomeini in Iran e nel mondo islamico. Noi esportavamo tantissimo nei paesi arabi e la bambola era il prodotto più forte. L’integralismo ha vietato l’importazione. Nel momento della crisi nessuno ci ha dato una mano, c’erano problemi anche con i sindacati che non hanno capito che se si fermava il distretto del giocattolo si fermava Monselice. Metà della popolazione lavorava per noi, l’altra metà per tanti piccoli artigiani che facevano giocattoli. Adesso non ci sono più artigiani e aziende di giocattoli e nessuno fa più bambole. Anche a livello nazionale non è rimasto quasi nessuno, oggi le cose non possono andare bene: c’è crisi di natalità e poi una bambina può scegliere tra una bambola e il telefonino».
La sua più grande soddisfazione
«Quando vengono a trovarmi le mie ragazze che ricordano tutte quel tempo. È stato un periodo bellissimo, quando si sposavano mettevo a disposizione la mia Mercedes bianca con autista e le mie nipotine facevano le damigelle. Poi la soddisfazione quando, nel 2008, tutti i sindaci del circondario hanno organizzato una serata dedicata a me e alla Città delle Bambole. Io sono contenta della mia vita, mi piacerebbe che andasse avanti l’idea del museo della bambola».
Tratto dall’articolo a firma di Edoardo Pittalis per il Gazzettino del 3 Ottobre 2022
Sulle bambole a Monselice clicca qui sotto:
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