L’industria del giocattolo e delle bambole in particolare ha avuto anche a Monselice nel corso del Novecento una serie di sviluppi interessanti e forse non a tutti noti. In questa sede proviamo a ripercorrerne alcune delle tappe principali. Per farlo abbiamo consultato, in particolare, il libro Bambole italiane – Guida per il collezionista di Piera Micheletti (edizioni Del Cerro, 1994) e l’articolo Sbaragliate dalla Barbie. Splendore e decadenza delle bambole di Monselice, contributo di Giuseppe Franchini per la rivista Terra e Storia anno V numero 9, gennaio-giugno 2016 (Cierre edizioni). Quest’ultimo nello specifico ci permette di riscoprire le vicende che hanno contraddistinto l’importante industria Bambole Franca, per la quale Franchini è stato a lungo responsabile della produzione.
La bambola italiana: introduzione storica
L’epoca d’oro delle bambole ha inizio nella seconda metà dell’Ottocento. Nel 1875-76, mentre i produttori francesi e tedeschi si contendono il primato qualitativo dei materiali utilizzati per la realizzazione delle bambole, a Canneto sull’Oglio, nel mantovano, vede la luce la prima bambola italiana, ad opera della Furga. Fatta di cartapesta dipinta di rosa, ha la testa composta da un miscuglio di stearina, formaldeide e gesso. Gli occhi, i capelli e un elastico che la tiene unita sono importati. Sul finire del secolo Furga avvia una produzione con teste in porcellana che arrivavano dalla Germania e venivano impiantate sui corpi in cartapesta o in legno. Al termine della Prima Guerra Mondiale l’azienda costruisce da sè teste in porcellana. Nel frattempo ad Arona, in provincia di Novara, apre i battenti la Ratti & Vallenzasca, che crea bambole con testa in porcellana. Negli anni Venti del Novecento emerge con forza la Lenci, che si fa strada sul mercato nazionale ed estero con bellissime bambole in feltro. Sorgono un po’ ovunque fabbriche di bambole in stoffa, oppure in cartone pressato ricoperto di stoffa, oppure con la testa in cartapesta o cartone pressato e il corpo in tessuto imbottito. Compaiono pure i primi bambolotti in celluloide e aumenta la produzione di bambole in composizione (cioè fatte mediante un mix di diversi materiali).
Il Secondo Conflitto Mondiale determina un brusco stop. L’attività riprende alla fine delle ostilità, quando cominciano a circolare le bambole in polistirolo. A metà degli anni Cinquanta si aggiungono la produzione in polietilene e in vinile. Con la diffusione delle materie plastiche la bambola italiana si afferma in tutto il mondo. Le prime a essere esportate nell’immediato Dopoguerra sono le “damine”, che si possono acquistare o vincere alle fiere: grandi bambole vestite con abiti ampi ed eleganti, che in tante case trovano posto sui letti matrimoniali (a rappresentare la donna e il bambino uniti in un unico essere) e che i soldati di ritorno in patria portano come souvenir alle famiglie. L’avvento della tecnologia favorisce la nascita di nuovi modelli di bambola: quella che cammina e muove la testa, quella che parla, che respira, che piange, che si versa il latte in un bicchiere, che dà i baci, che cambia volto e molte altre. La produzione della bambola italiana si riduce sensibilmente alla fine degli anni Settanta a causa della concorrenza spagnola e poi nel decennio successivo per via della forte competizione del mercato orientale.
Materiali e tecniche di costruzione: la bambola italiana in celluloide
Tra i principali materiali naturali utilizzati negli anni per fabbricare bambole, ricordiamo la cartapesta, la porcellana, il biscuit, il tessuto, il cartone stampato, il gesso e la composizione (mix di sostanze, che ad esempio potevano essere terra, colla, farina, amido, pomice). Tra quelli sintetici, l’acetato di cellulosa, il polistirolo, il polietilene, il cloruro di polivinile e la celluloide. Su quest’ultima apriamo una breve parentesi. I produttori tedeschi, francesi, americani e giapponesi per un periodo ne fanno ampio uso, dando vita a bambole leggere, lavabili e infrangibili. In Italia questo materiale è invece meno impiegato. A Castiglione Olona, in provincia di Varese, dal 1849 tuttavia è attiva la ditta Mazzucchelli, rinominata nel 1907 Samco (Società Anonima Mazzucchelli). Opera nell’ambito della realizzazione di pettini e bottoni e nel 1890 avvia la lavorazione della celluloide. Nel 1924 proprio Silvio Mazzucchelli crea la Società italiana della celluloide, che in breve si trasforma in una delle maggiori produttrici europee di questo materiale.
La prima fabbrica italiana di bambole in celluloide viene lanciata in quegli anni a Gazzada, a pochi chilometri di distanza: si chiama Inca e per circa un quarto di secolo, con 150 dipendenti, costituisce la più importante realtà di questo tipo nel nostro Paese. Nel 1948, sempre a Gazzada, Francesco Bardelli avvia una nuova fabbrica di bambole in celluloide, a cui affianca in seguito una linea di giocattoli. In base alle richieste dei clienti, Bardelli si serve di celluloide opaca o lucida, e la produzione si rivolge solo al mercato italiano. Le sue bambole, alte fino a 42 centimetri, portano un marchio a forma di cigno sul dorso. Alla fine degli anni Cinquanta l’imprenditore decide di passare al polistirolo prima e al polietilene poi. Nel tempo l’impiego di celluloide viene abbandonato da tutti a causa dell’alta infiammabilità del materiale.
La produzione delle bambole a Monselice
Aldo Besutti
Nel 1924 Aldo Besutti apre in città una bottega per la fabbricazione di statuette di gesso e di giocattoli. Alle proprie dipendenze non ha che pochi operai, ma riesce a crescere a un buon ritmo affermandosi nel mercato locale e provinciale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, che ha comportato un comprensibile rallentamento, nel 1948 l’azienda può riprendere a lavorare a pieno regime. Nei difficili anni post conflitto, quando si iniziano a realizzare le prime bambole di gesso, la ditta Besutti, che prende il nome di Fisbi, si costruisce una solida base. Il figlio di Aldo, Cesarino, entrato nella fabbrica in giovanissima età, offre al padre una proficua collaborazione.
In questo periodo altri si cimentano nel campo della fabbricazione della bambola: si tratta di venditori ambulanti e piccoli commercianti venuti dalle campagne, spesso privi di una reale preparazione tecnica. Nonostante ciò la produzione è molto elevata e il mercato locale e provinciale, ormai in significativa ripresa, recepisce con facilità i prodotti. Nasce anche la ditta di Fabiano Marinetti, che fornisce un contributo importante all’evoluzione del settore: nel luglio del 1950, infatti, vara alcune macchine per fare le teste delle bambole in materia plastica, mentre i corpi sono costituiti da un panno ripieno di segatura.
Trascorre solo qualche anno e un certo Marzolani, che sin dal 1946 realizzava bambole di panno e di gesso, acquista dall’Athena di Piacenza un certo numero di corpi grezzi. Besutti reagisce stipulando con la stessa Athena un vantaggioso contratto e ottenendo l’esclusiva fornitura dei grezzi in plastica. Fabiano Marinetti, intanto, acquista nuove stampatrici, trasforma la sua impresa (la Fabian-Plastica) e rifornisce di corpi grezzi i vari artigiani della zona, che si occupano della confezione e spesso della vendita.
Gli ambulanti di Solesino comprano notevoli quantitativi di bambole per poi rivenderle in tutta Italia, accettando come pagamento ciò che viene loro dato: dal frumento al rame. A Monselice l’industria delle bambole conosce quindi un forte sviluppo. La produzione aumenta e i prezzi sono molto convenienti per via del basso costo della manodopera: vengono impiegate ragazze apprendiste dai 14 ai 20 anni. Besutti, dal canto suo, acquista altre macchine per lo stampaggio, organizza in modo accurato la vendita, assume nuovo personale e raggiunge nel 1957 il ciclo completo di lavorazione, dallo stampaggio allo scatolificio, dalla sartoria alla confezione. Adesso tutte le bambole costruite nella città della Rocca sono in plastica, materiale che conferisce loro maggior leggerezza e contemporaneamente maggior consistenza. Esse superano così le frontiere della penisola: sono molto richieste dall’America dal Sud e dall’Europa centro-occidentale, in particolare dalla Germania.
Nel Dopoguerra a Monselice è stata aperta anche un’altra fabbrica, quella dei fratelli Toffano, destinata a progredire e a guadagnarsi grande prestigio per la cura, la bellezza e la qualità della produzione. I Toffano cominciano l’attività nel 1948, seguendo di persona la confezione e la vendita di bambole in gesso. I loro prodotti saranno esportati in tutto il mondo. Estremamente significativa, inoltre, l’industria allestita da Franca Cascadan e diretta dal fratello Franco, che in brevissimo tempo riesce a raggiungere una produzione di centinaia dei bambole al giorno.
Tante le piccole aziende come quelle di Margutti, di Visentin, di Martini Clara e altre che si limitano alla confezione ed alla vendita dei grezzi acquistati dalla Fabian-plastica e dalla Fisbi. Anche queste commissionano il lavoro a domicilio, una soluzione vantaggiosa per le ditte perché evita un impegno immediato di capitale per l’acquisto delle macchine da cucire e l’allestimento di apposite sale. Con il passare degli anni l’artigianato delle bambole va incontro alla modernizzazione e a una sempre maggiore industrializzazione, che conduce a un considerevole incremento della produzione e alla riduzione dei costi. La Fisbi, per esempio, arriva a realizzare ben due bambole al minuto e il suo fondatore nell’agosto 1959 corona i successi ottenuti ricevendo una prestigiosa onorificenza. Sul mercato i prodotti monselicensi si fanno apprezzare per la perfezione, la cura e il buon gusto delle rifiniture.
Le Bambole Franca
L’inizio della produzione delle Bambole Franca risale al 29 dicembre 1956 e si deve all’intraprendenza di Franca Cascadan: è lei a confezionare i primi vestiti per le bambole che compra dalla ditta Athena di Piacenza. Le si affiancherà come socio nel 1961 il fratello Franco. La prima dirigerà le operazioni di abbigliamento e rifinitura delle bambole, il secondo seguirà la commercializzazione e la direzione dell’impresa. La nascente ditta “Effe Bambole Franca” ha lo scopo di realizzare bambole di basso costo e grandi dimensioni, con abiti colorati in grado di catturare subito l’attenzione. L’azienda si rivolge al mercato delle lotterie, dei bazar, delle fiere e delle sagre, che sta attraversando una fase positiva in Italia e all’estero, specie in Germania e nei Paesi nordici.
La materia prima, molto economica, è il polistirolo grigio, di seconda scelta o anche recupero di scarti. Questo materiale, stampato in due parti, viene incollato, raschiato nelle giunture e verniciato di rosa. I capelli, in origine costituiti da fili di lana o di fibra Mohair incollati sulle teste delle bambole, sono fatti in seguito con il rayon, che permette di dare vita a maestose pettinature in stile ottocentesco. Anche i vestiti, creati usando tessuti appariscenti quali il taffettà e il tùlle, presentano uno stile antico: gonne molto ampie, piene di colori, pizzi, merletti. Per crearli ci si serve di macchine da cucire piane con l’aggiunta di qualche accessorio appositamente predisposto. Per il taglio ci sono taglierine elettriche a nastro e a mano. I macchinari più importanti, ingombranti e costosi sono però le macchine a iniezione e a soffiaggio, necessarie per dare vita alle teste, agli arti e ai busti per le differenti misure di bambole (da 50 a 90 centimetri). Non manca inoltre l’impianto di verniciatura a spruzzo, dotato di cabine di aspirazione.
Alla fine degli anni Cinquanta l’impresa di Franca Cascadan dà lavoro a più di 30 operaie, quasi esclusivamente ragazze del posto che hanno da poco terminato la scuola dell’obbligo. Le giovani tagliano gli abiti, li confezionano, truccano il volto delle bambole, incollano e pettinano i capelli, controllano le finiture e inscatolano il prodotto pronto per essere spedito. Nei primi anni Sessanta l’azienda compra anche le macchine per lo stampaggio in proprio della plastica, per cui comincia la produzione a iniezione e a soffiaggio di tutti i particolari delle bambole. Vengono assunti 15 operai maschi impegnati in due turni di otto ore. Le cose sembrano funzionare piuttosto bene e negli anni seguenti la manodopera, soprattutto quella femminile, raddoppia. L’attività produttiva migliora e vengono inventate la “Bambola che chiama la mamma” e la “Damina camminante”. È un tecnico locale, Guido Bosello, a costruire gli stampi per il meccanismo “camminante” custodito nel busto e a brevettare la “Camminante a mano”. La bambola, cioè, adesso è accompagnata per mano dalla bambina, che le insegna a muovere i passi. Nel giro di qualche anno essa riesce persino a spostare la testa a destra e a sinistra durante la camminata.
In questo periodo in Veneto si sviluppano il turismo balneare e il campeggio: si avvia quindi la produzione di sedie, sdraio, lettini non più impagliati ma rivestiti in plastica, capaci di resistere alle intemperie. Parallelamente si fa strada a Monselice anche la fabbricazione di ombrelloni. Il business dura però pochi anni ed emerge la necessità di svoltare su altre produzioni simili per continuare a impiegare i macchinari. L’Industria Meccanica Arredamenti Camping (Imac) comincia perciò a realizzare nei propri capannoni giocattoli, tricicli, biciclettine, automobiline a pedali, accessori per le bambole.
A metà degli anni Sessanta i vertici della Franca riconoscono l’esigenza di inserirsi in altri mercati (grandi magazzini, grossisti e dettaglianti qualificati), i quali richiedono maggiore qualità e ricercatezza nei materiali, nelle finiture e nella presentazione del prodotto. Su una superficie di circa 50 mila metri quadrati in zona industriale vengono allora costruite due grandi fabbriche e all’insegna dello slogan “Bambole nuove per tempi nuovi” prende il via il nuovo corso. Da altre ditte si assumono un responsabile del trucco e della pettinatura delle bambole e un responsabile della produzione con compiti di coordinamento generale. Importante è poi la funzione dello scultore, che è chiamato a modellare le espressioni sulla base dei desideri della clientela.
L’azienda ricerca personale femminile in tutto il circondario: Arquà Petrarca, Pernumia, Tribano, Pozzonovo, Solesino. Si va al lavoro in bicicletta, in motorino o in automobile. Inoltre una corriera da cinquanta posti messa a disposizione dalla ditta va a prendere i lavoratori della zona di San Pietro Viminario, Conselve, Arre, Candiana, Pontecasale, Pontelongo; un’altra serve Ospedaletto Euganeo, Saletto, Megliadino San Vitale e San Fidenzio. Gli occupati arrivano presto a quota 400, in prevalenza donne. Monselice si trasforma così in una delle capitali del “distretto della bambola”: le sue fabbriche danno lavoro a oltre 1200 persone (qualcuno ipotizza addirittura 3000 in totale, comprendendo gli operatori a domicilio e i laboratori conto terzi). I prodotti sono controllati, atossici e certificati con il marchio “Giocattoli sicuri”, e si diffondono nella penisola e all’estero.
Si lavora anche 48 ore settimanali, come previsto dal contratto dell’epoca: in seguito l’orario sarà ridotto a 44 e a 40. Un ruolo rilevante lo svolge chiaramente la pubblicità, che contribuisce a far conoscere le bambole monselicensi e la città stessa. Alcuni prodotti diventano personaggi della tv: Maga Maghella, ispirata a Raffaella Carrà, Fanella “gambe lunghe”, portata sotto i riflettori dall’attore comico Raffaele Pisu, e ancora Provolino, Graspin. Tutti realizzati da Bambole Franca. Una curiosità: le bambole create dalla ditta monselicense fino agli anni Settanta non vengono marcate; solo successivamente, con l’avvento della fortuna televisiva, sulla loro nuca compare la caratteristica “Effe”.
Attorno alla metà degli anni Settanta il settore è attraversato dai primi problemi. L’Imac deve chiudere e le difficoltà coinvolgono anche la consorella Franca. Le produzioni delle bambole grandi, le “damine”, non hanno più il successo di una volta: al mercato costituito da fiere e sagre non interessano le migliorie apportate, la bella vestizione, le acconciature eleganti, la sicurezza. Si cerca un prodotto sempre grande, ma economico. La ditta decide allora di reinventarsi di nuovo, entrando nel campo dei peluches. I prodotti hanno le sembianze di cani, gatti, orsi e animali di vario genere, sono morbidi, piacevoli da coccolare. Rispondono bene i mercati tedeschi, nordici, francesi e poi anche italiani. La produzione di peluches è considerata da tanti artigiani del monselicense più agevole e redditizia rispetto alle bambole. Diverse piccole imprese si lanciano dunque nel settore. Il peluche si diffonde anche grazie alla tv, che inizia a trasmettere i Puffi: ben presto tutti cominciano a pagare le royalties e a produrre i personaggi di questa famosa serie.
Al marzo-aprile 1980 risale una ricerca del professor Franza sul settore del giocattolo: in città sono presenti due grandi industrie (Effe e Fabianplastica), 250 artigiani di cui 18 aziende primarie, fra i 3000 e i 4000 lavoratori a domicilio. Franca conosce un’ulteriore fase di sviluppo: ha 97 dipendenti interni e una trentina di laboratori esterni per una produzione di sei-settemila pezzi giornalieri. La richiesta di Puffi nel giro di un paio d’anni però si esaurisce e inizia la crisi dei peluches. La Effe Bambole prova a reagire accapparrandosi due importanti personaggi televisivi: l’ape Maya e Misha, mascotte delle Olimpiadi di Mosca. Ma i Giochi patiscono le conseguenze del boicottaggio e neanche l’ape Maya raccoglie il successo auspicato. Con la produzione di bambole e peluches fini Franca riesce a salvare l’occupazione di gran parte dei suoi dipendenti, pur ricorrendo alla Cassa Integrazione.
Le difficoltà, tuttavia, continuano: la liquidazione dei debiti della consociata Imac si ripercuote sulla Effe, costretta a cercare aiuti finanziari per sostenere la pur valida produzione. Mentre si susseguono indagini, relazioni e ipotesi d’intesa per provare a riportare la situazione in equilibrio, l’azienda non cessa di operare e anzi propone una nuova diversificazione della propria produzione: i cavalcabili, cavalli a dondolo. Questi sono differenziati in varie linee: prima infanzia (struttura a dondolo in plastica e corpo cavalcabile ricoperto in peluche), primi passi (struttura a dondolo in acciaio, soggetto in Pvc atossico e seduta rivestita in peluche), per grandicelli (struttura a dondolo in plastica, struttura portante in acciaio, seduta su cavallo, asino o cammello in peluche).
Si sceglie poi di sfruttare la fama del Carnevale di Venezia, rispondendo alla necessità di avere costumi belli, adatti a ogni età e ovviamente sicuri per i bambini. Come accessori si realizzano parrucche e cappelli. Vengono prodotte inoltre con grande cura dei particolari le Maschere, tutte in Pvc atossico, ignifugo e inodore, riproduzioni derivate da antiche raffigurazioni artistico-teatrali del passato. Queste diversificazioni ottengono buoni risultati, ma non bastano. La crisi del settore è ormai generalizzata e colpisce l’intera Europa. La causa principale è la concorrenza dei Paesi orientali, in grado di produrre a costi bassissimi.
Alcune aziende italiane, per restare competitive, si riforniscono già dall’Estremo Oriente. Altre hanno scelto strade diverse: la ditta americana Mattel Spa nei primi anni Settanta ha prelevato la parte produttiva della ditta Ratti e Vallenzasca per dare vita alla Barbie, in seguito riprodotta in Estremo Oriente a costi ridottissimi e rivenduta ovunque con profitti rilevanti. Il colpo di grazia per le imprese italiane giunge dai nostri stessi gruppi di grossisti e gruppi di dettaglianti che, per reggere l’urto della Barbie, monopolio esclusivo della Mattel, si organizzano per acquistare direttamente dai produttori di meccanismi. Questi, però, intanto si sono industrializzati per fabbricare ogni tipo di bambola da diffondere in tutta Europa.
Le maggiori relatà produttive del giocattolo italiano sono obbligate prima a tagliare in maniera considerevole il personale e poi a chiudere. Tra queste, la Sebino cessa l’attività nel 1984, la Italo Cremona smette di realizzare bambole nel 1988. Lo stesso anno nel quale si interrompe la storica produzione di “Effe Bambole Franca”, con la quale dal 1965 al 1985 ha collaborato anche lo scultore veneto Giancarlo Milani.
Bambole Cinzia
Fra le numerose fabbriche di bambole che sorgono a Monselice nel Dopoguerra va citata anche la “Bambole Cinzia”, fondata da Renzo Zerbetto nel 1961. All’inizio produce bambole con corpo in cartapesta e in cartone, e arti e volto in gesso. Già dal 1962 i corpi sono in polistirolo, per passare al polietilene nel 1967 e al vinile negli anni Settanta. Si acquistano le varie parti, che vengono quindi assemblate e arricchite con occhi e capelli. L’abbigliamento maggiormente impiegato è quello della damina, ma ci sono anche la zingara, la ballerina, la majorette e la bambina. Le “Bambole Cinzia” raggiungono tutta Europa, l’America e il Canada.
Ottavio e Giuseppe Toffano
Nei primi anni Cinquanta all’ombra della Rocca lanciano un’azienda per la fabbricazione di bambole i fratelli Ottavio e Giuseppe Toffano. La ditta raggiunge l’apice delle proprie esportazioni tra il 1960 e il 1973 verso la Germania e il Portogallo. Il modello principale è quello della damina.
Gabar – Bambole italiane
Anche nel rodigino si sviluppa negli anni Cinquanta un’importante ditta che opera nel settore del giocattolo. Mario Giuriola muove i primi passi rilevando la “Cabar Sas”, che nel 1974 trasforma in “Gabar Srl”, spostandosi da Rovigo a Costa di Rovigo. Dagli anni Sessanta comincia la produzione in polistirolo, soprattutto di damine. Alla fine del decennio passa al polietilene e al vinile, e si allarga a tutti i tipi di bambole e bambolotti, anche meccanici. Tra i suoi modelli più graditi dal mercato Michela, che parla e cammina, e Marcellino, che si dondola su un seggiolone. L’azienda, che negli anni ha avuto centinaia di dipendenti, cessa l’attività nel 1992.
Link utili per approfondire
Da un articolo del corriere veneto del 2009 (https://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/economia/nuovo_veneto/museo-bambole-rilanciare-turismo-1602120463359.shtml)
l’AZIENDA BAMBOLE FRANCA AVEVA TRASFORMATO MONSELICE IN UNA DELLE CAPITALI DEL DISTRETTO DEL GIOCATTOLO«Un museo delle bambole per rilanciare il turismo»MONSELICE (Padova) – Quando i giocattoli «made in Italy» conquistavano i mercati mondiali, Monselice era una delle capitali del distretto della bambola. Dai capannoni dell’azienda Bambole Franca uscivano ogni anno da tre a cinque milioni di giocattoli. Nel 1980 l’azienda, terza in Europa per grandezza, fatturava 11 miliardi di vecchie lire (più di cinque milioni di euro). Ma il mercato presto si saturò, la Cina invase con i suoi giocattoli a prezzi imbattibili i negozi italiani. La rigidità dei sindacati e delle banche, la miopia di politici e industriali fece precipitare l’azienda verso il fallimento. Ma trent’anni di storia economica e sociale non si possono cancellare. Per questo Giorgio Borin, titolare del ristorante La Montanella di Arquà Petrarca e presidente mandamentale dell’Ascom di Monselice lancia un’idea: costruire un museo della bambola. E spiega: «In una zona a fortissima emigrazione, la “Bambole Franca” ha dato lavoro a molte donne di Monselice, Pernumia, San Pietro Viminario e Arquà Petrarca. Oggi abbiamo la possibilità di recuperare questa importante pagina della nostra storia come volano per rilanciare in chiave turistica l’immagine di Monselice».
Del grande e florido distretto della bambola oggi nella città della Rocca rimangono pochissime attività che non raggiungono i numeri, le dimensioni e la fama della Bambole Franca. Sono nate a Monselice Fanella, bambola bruna con gli occhialoni neri, lanciata in televisione da Raffaele Pisu. E Maga Maghella, la bambola bionda ispirata a Raffaella Carrà e alle sue canzoni. «Ero io la creativa dell’azienda e mi occupavo personalmente dell’abbigliamento delle bambole», ricorda oggi Franca Cascadan. «Dopo la guerra, in paese molte famiglie confezionavano bambole da consegnare a chi veniva negli stabilimenti termali di Abano e per gli ambulanti di Solesino, che le scambiavano con oggetti di antiquariato nel Sud Italia. Prima, ho cominciato a cucire i vestiti per le bambole dei vicini di casa, poi ho aperto un laboratorio». Franco, il fratello di Franca, scaricava le merci delle navi che arrivavano a Marghera. «Avevo cominciato a lasciare qualche bambola di mia sorella nella mensa dove mangiavamo. Con noi c’erano i marinai in attesa di riprendere il largo che compravano volentieri una bambola da portare a casa come ricordo del viaggio. Furono i miei primi clienti stranieri». La Bambole Franca dal 1956 al 1986 ha prodotto una media di 25mila pezzi al giorno, dando lavoro a quasi 400 persone, oltre mille contando l’indotto. «Avevamo una trentina di laboratori artigianali esterni — dice Franca Cascadan (a destra nella foto di Michela Gobbi) con orgoglio — cui fornivamo macchinari e materiali. Così non perdevamo l’esperienza e la manualità di operaie che decidevano di lasciare l’azienda dopo la nascita del secondo o terzo figlio». Poi arrivò la Cina e fu la fine. Racconta Franco, che in azienda si occupava della parte commerciale: «La paga lorda di un operaio era di 40mila lire all’ora, poco più di venti euro. E l’incidenza dell’operaio sulla lavorazione del prodotto-bambola era del 33 per cento. In Cina con 40 mila lire pagavano uno stipendio mensile, quindi i loro prodotti erano fuori mercato. In quel momento di crisi, i sindacati, che a distanza di anni ci chiesero scusa, ebbero un atteggiamento di fermezza. Gli industriali non compresero il reale pericolo della Cina e le banche non ci aiutarono. Assieme a noi in quegli anni chiusero, una dopo l’altra, tante grandi aziende di giocattoli». Oggi i due fratelli danno una mano ai figli, uno dei quali è rimasto nel settore del giocattolo creando la Gexon, azienda di Este che recupera, stocca e rivende le rimanenze di magazzino. «La pensione? Avevamo decine di appartamenti e locali di cui eravamo proprietari tramite una società immobiliare — racconta Franco — e questa doveva essere la nostra rendita vitalizia. Ma col fallimento, ce l’hanno portata via. Il terreno dove sorgevano i capannoni , 50 mila metri quadrati alle porte di Monselice, è stato svenduto a due miliardi (poco meno di un milione di euro, ndr)». Le vecchie fabbriche sono state abbattute ed è sorto il centro commerciale Airone. «A noi non è rimasto niente — aggiunge Franca — e molte bambole le ho regalate. Dell’azienda dal volto umano mi rimane il ricordo di molte operaie. Alcune le rivedo per strada. Mi commuovo ancora quando mi chiedono: posso abbracciarla, signora Franca?». «Non possiamo perdere ciò che ha rappresentato per tutte le famiglie di Monselice la Bambole Franca», spiega il presidente mandamentale dell’Ascom Giorgio Borin. «Per questo chiedo al sindaco che all’inizio del paese, sopra il cartello che indica la “città murata”. sia apposto un cartello con scritto ‘Monselice Città delle bambole’». E il museo? «Come portavoce dei commercianti del mandamento, promuoverò la pubblicazione di un libro dove vengano raccolte le testimonianze di coloro che hanno lavorato all’interno dell’azienda. Il museo della bambola potrebbe raccogliere le bambole da collezione e i principali modelli pensati da Franca e realizzati dallo scultore Giancarlo Milani». Un luogo Borin l’ha già individuato. «C’è la vecchia chiesa abbandonata di Santo Stefano, di proprietà del Comune. Potrebbe ospitare bambole donate da collezionisti o da privati cittadini. Poi si potrebbe pensare anche a un evento periodico come una mostra-mercato. Ci sono molti collezionisti che ricercano ancora le bambole Franca nei mercatini e non solo. Avete mai provato a digitare ‘Effe Bambole Franca’ su ebay?». Antonino Padovese |
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Intervista a Franca Cascadan [ vai…]
© 2023 a cura di Flaviano Rossetto per https://www.ossicella.it/
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