La pubblicazione dell’opera in tre volumi di Francesco Feltrin intitolata “La lotta partigiana a Padova e nel suo territorio” pubblicata dalla casa editrice Cleup di Padova, fa chiarezza sulle prime fasi della guerra partigiana a Monselice durante le quali fu realizzato un attentato al sottopassaggio ferroviario di via valli. Secondo i tedeschi furono i partigiani monselicensi, ora Feltrin da una diversa versione, riportata a pag. 1641 tomo III.
Nel libro Da Monselice a Mauthausen. La storia di otto monselicensi morti nei lager tedeschi durante la seconda guerra mondiale abbiamo ricostruito la storia dell’attentato avvenuto nella notte tra il 12 e 13 settembre 1944. Dopo sommarie indagini furono arrestati 29 giovani monselicensi ritenuti – erroneamente – responsabili consegnati ai tedeschi e torturati nelle carceri padovane. Dopo un mese di indagini furono individuati i capi della resistenza monselicense e coloro che risultarono più compromessi furono deportati in Germania. Otto di loro (Luciano Barzan, Alfredo Bernardini, Tranquillo Gagliardo, Luciano Girotto, Dino Greggio, Settimio Rocca, Idelmino Sartori ed Enrico Dalla Vigna) morirono nei lager tedeschi. L’opera ricostruisce le vicende di questi tragici giorni con testimonianze e documenti inediti (tra cui una relazione di un maresciallo delle brigate nere che racconta la sua “particolare” versione dei fatti e altre carte custodite presso l’archivio storico, recentemente riordinato) che mettono in luce quel sacrificio estremo per far trionfare in Italia i principi di libertà e di democrazia.
Nel libro di Feltrin ritroviamo la stessa ricostruzione dei fatti, ma attribuisce ad altri l’esecuzione dell’attentato di via valli. Riportiamo integralmente la nuova versione del fatti, un invito a leggerlo con attenzione.
È la storia drammatica e per molti versi tragica di un gruppo di uomini di Monselice , alcuni giovanissimi, altri maturi che animati dalla volontà di contribuire alla cacciata dei tedeschi ed annientamento del fascismo, si proposero di costituire una formazione partigiana e pagarono con la deportazione e, nove di loro, con la vita quel nobile intento prima ancora di avere potuto agire. È la storia del 1°Btg “Aquila”,una formazione in fieri , forse autonoma, con più probabilità collegata con il preesistente locale 4° Battaglione garibaldino “Falco” o addirittura figliata da esso. Le notizie in proposito sono assai scarse: abbiamo un nome, “Aquila”, che compare solo in una memoria del maresciallo della GNR Raffaele Curzio, comandante del distaccamento di Monselice, che organizzò le operazioni di cattura di tutti gli affiliati, e un elenco di 29 nomi sottoscritto dal capo della provincia di Menna. Come molte delle storie narrate in questo capitolo, anche questa ha un inizio e finisce con una delazione, il 6 ottobre 19944 tale G. B., monselicense, affermando di volersi sottrarre alle persecuzioni della Brigata Nera, rivelava al maresciallo Curzio che si stava costituendo in Monselice un’ organizzazione partigiana che faceva capo Luciano Balzan. Sulla base delle informazioni raccolte dal Curzio, il capitano Meneghini che comandava la Compagnia ausiliaria della GNR di stanza a Monselice la sera del 17 ottobre procedeva all’arresto del Barzan, nella cui abitazione furono trovate armi, materiale di propaganda, buoni del prestito della liberazione emessi dalla Brigata Garibaldi e, purtroppo, l’ elenco completo dei 29 aderenti. Con l’ausilio dei militi della Brigata Nera monselicense, il Meneghini procedeva subito all’arresto di tutti i componenti dell’organizzazione. Oltre a Barzan , solo quattro erano in possesso di un arma. Chiamato dal Curzio, accorse da Padova il capo della provincia Menna e si discusse del destino degli arrestatati. A quanto sostiene il Curzio, egli avrebbe convinto Menna ad acconsentire che tutti potessero arruolarsi nelle forze armate della RSI, ma vi si sarebbero opposti violentemente i capi fascisti di Monselice, il vice federale Cattani ed il comandate della Brigata Nera Rossato facendo forti pressioni sul commissario federale Vivarelli. Il Menna avrebbe allora cambiato idea, ordinando che fossero tutti messi a disposizione del SD di via Diaz, dove in fatti furono imprigionati subendo “stringenti” interrogatori.
Sempre secondo il Curzio l’elemento decisivo per la loro condanna fu offerto da uno degli arrestati, tale Alfio Rossi, un ex carabiniere di Frosinone, che affermò che il gruppo era responsabile di un sabotaggio ferroviario effettuato a Monselice, con l’esplosivo fornito da tale Bernardini, autista del conte Cini, cosa assolutamente non vera, ma su quale puntarono i piedi i tedeschi decidendo di deportare tutti in Germania.
Questo Rossi, indipendentemente dalle accuse del Curzio, appare una figura equivoca, per non dire losca. Come riferiva a suo tempo il confidente che la Garibaldi aveva preso il comando della Brigata Nera, ai primi di luglio Rossi era stato arrestato dall’allora Battaglione “Ettore Muti”; era in procinto di essere interrogato e gli squadristi prevedevano “che avesse molte cose da dire”.Stranamente liberato, era tornato a bazzicare al 4°Btg, “Falco”, i cui dirigenti, evidentemente si fidavano di lui; ma se si esamina la relazione del capo della provincia Menna del 23 ottobre 1944 sull’arresto dei 29, monselicensi si ha l’amara sorpresa di scoprire che accanto al nome del 29, Alfio Rossi di Amedeo, è scritto “informatore segreto” il confidente dunque un abile doppiogiochista, per salvarsi accusa i sui compagni di un attentato che essi non avevano compiuto; si tratta molto probabilmente, del sabotaggio effettuato la notte del 12 al 13 settembre 1944 al ponte ferroviario della linea Padova-Bologna che sovrappassa la strada delle Valli poco prima della stazione di Monselice; una brillante azione eseguita da Giuseppe Bussolin “Amedeo”, comandante di Battaglione della Brigata “Pierobon” al comando di una squadra di venti partigiani .
Ma il Rossi non si limitò a questo; denunciò il capo del movimento politico “Edera da Monselice”, cioè Luigi Giorio, comunista, che dal quel momento fu ricercatissimo; il 26 ottobre accompagnò la GNR nell’abitazione di Giuseppe Sturaro, intendente del 4° Btg. Garibaldino “Falco”, dove fu sequestrata la cassa battaglione con una rilevante somma di denaro destinata a finanziare la lotta armata. Più tardi accompagno i militi della GNR nel abitazione del “Professore” cioè di quel Fabio Bellini che si era fatto nominare “commissario politico” del Btg. e ancora rivelò i nomi di “Socrate” (Lionello Geremia) e di “Manitù” (Marcello Braghetta) accompagnando i fascisti alla loro ricerca che, per fortuna fu vana. In premio della sua attività delatoria fu l’unico a non essere deportato in Germania. Trattenuto a Padova nella Casa di Pena di Piazza Castello, fu trattato con ogni riguardo, rifornito di una razione giornaliera di vino e, infine ai primi di aprile del 1945, liberato con la formula “Rilasciato dal Comando Germanico per i servizi resi alla causa comune“ . Dopo la liberazione il Rossi , essendo uno dei pochi superstiti del 4° btg , si autonominò comandante della polizia partigiana di Monselice . Il Curzio lo accusa, tra l’altro , di avere distrutto nell’occasione tutte le carte compromettenti che erano custodite nella cassaforte della GNR, di avere operato arresti discutibili ed operazioni poco pulite .
Nel vuoto lasciato dalla formazione il 4° Battaglione “Falco” praticamente distrutta dagli arresti, e dai rastrellamenti, degli eccedi tedeschi e poi e dai tradimenti e dalle rese incondizionate, il Rossi assume anche incarico di responsabile dell’ufficio storico del Battaglione che nel frattempo, aveva assunto il nome del caduto “Giannino Garato”.In tale veste aveva il coraggio di scrivere il 22 luglio 1945, cioè tre mesi dopo la liberazione una relazione al Comando della Brigata Garibaldi nella quale sosteneva “Verso la metà di ottobre (1944 ) in seguito tradimento di elementi ancora sconosciuti causa grande rastrellamento effettuato da tutta GNR di Monselice , della Muti e della polizia ausiliaria, venivano catturati 30 Garibaldini compresso il comandante di compagnia Alfio Rossi ed il giorno appresso vennero trasportati SD tedesca in via A. Diaz a Padova meno il comandante di compagnia Rossi che veniva trattenuto perso le carceri di Monselice ove venne seviziato e torturato al solo scopo di riuscire a sapere tutte le branche del battaglione e della brigata, ma l’interrogatorio per quanto brutale sia stato fini con un netto insuccesso per i nazifascisti causa l’irremovibilità del Rossi. Così pure i garibaldini a Padova vennero seviziati e torturati per poi essere inviati nei campi di concentramento in Germania. La metà deve ancora far ritorno alle proprie case. Dunque, non solo spia e traditore, ma anche esibizionista questo Rossi che intendeva crearsi addirittura un alone di eroismo approfittando della scomparsa di tutti quelli che l’avrebbero potuto accusare.
Scrive Giuseppe Gaddi a conclusione di questa trista vicenda: “Un altra inchiesta confermerà l’esattezza di buona parte delle accuse mosse al R. A . [Rossi Alfio]. Quanto al delatore che dette origine all’operazione, fu condannato a 10 anni per collaborazionismo pena naturalmente, successivamente condonata e amnistiata.
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