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La storia di una famiglia di Ebrei nascosta a San Cosma durante la 2^ guerra mondiale

Sabato 11 febbraio 2017  durante la presentazione del libro di R. Valandro sulla storia degli ebrei monselicensi è stata raccontata la storia di Luciana Zevi  e della sua famiglia di religione ebraica che ha trovato ospitalità nella fattoria di Arcangelo Antonio Sette (nella foto il nipote) per sfuggire alle retate tedesche.

L’altruismo della famiglia Sette ha probabilmente salvato il piccolo nucleo famigliare da morte certa. In sintesi i fatti. La famiglia Zevi (Padre, madre e una figlioletta di 6 anni) disperata ha bussato alla porta dei Sette, loro parenti. Antonio Sette, consapevole del pericolo che correvano entrambi li ha nascosti nel fienile dicendo a tutti che erano degli sfollati dal Po. Il terribile segreto è rimasto tale fino alla fine della guerra, nonostante sul posto ci fossero numerosi tedeschi. Un esempio di altruismo che andrebbe premiato e fatto conoscere.

Francesco Selmin nel suo libro “Da Este ad Auschwitz” ricostruisce la storia della famiglia che aveva frequentato gli Zevi, con Umberto rifugiatosi a S.Cosma durante la seconda guerra mondiale. La famiglia Zevi era composta dal vecchio Arturo, da sua moglie Emma e da tre figli: Umberto, Carlo e Anna. Con loro viveva la sorella di Arturo, di nome Ginevra. Il vecchio aveva un negozio di stoffe in Piazza Maggiore a este, tra la Cassa di Risparmio e il Monte di Pietà; la moglie, la figlia e la sorella gestivano un negozio di filati e mercerie all’inizio di via Matteotti, dove oggi c’è il negozio di abbigliamento Polo. Proprio lì i carabinieri andarono a prelevarle durante la guerra per portarle via. 

Era gente affabilissima. Li abbiamo sempre considerati cittadini come gli altri. Erano pienamente integrati nella società estense. Uno dei fratelli, Umberto, impiegato alla Cassa di Risparmio, sposò una donna di Este di religione cattolica. Prima c’era stato un altro matrimonio misto. Il signor Caterino Scarso, che aveva un negozio di tessuti in Piazza Maggiore, sul lato nord, aveva sposato Pia Zevi, un’ebrea forse imparentata con Arturo. Soltanto quando il fascismo subì l’influenza di Hitler, alla fine degli anni Trenta, si cercò di mettere in testa agli italiani che gli ebrei erano diversi”.

Vediamo come si sono imparentati con i Sette di San Cosma.  Arcangelo Antonio Sette (1895-1973), impegnato nel lavoro dei campi, rimasto vedovo con tre figli, decise di risposarsi con Ida Pastore di Solesino, anch’essa vedova. Una cugina di Ida, Paolina, sposò Umberto Primo Zevi. Umberto era ebreo, uno dei pochi in famiglia che aveva avuto la possibilità di proseguire gli studi, diventando impiegato della Banca di Este e Monselice [la Cassa di Risparmio]. egli non aveva l’uso di una gamba perchè da piccolo era caduto dalle braccia della zia, fratturandosela. Dopo il matrimonio con Paolina, si trasferì a Venezia. Con l’inizio della seconda guerra mondiale le loro vite ebbero una svolta: infatti furono costretti a scappare e a rifugiarsi a casa dei Sette – la cugina acquisita di Monselice – per sottrarsi ai controlli tedeschi in quanto ebrei anche se solo per via maschile. Fortunatamente non furono mai trovati grazie alle persone che li ospitavano poichè, da veri amici, non fecero la spia. La madre e la sorella di Primo, anche loro ebree, furono meno fortunate, in quanto vennero trovate dai nazisti nel loro negozio di giocattoli a Este e deportate nel campo di concentramento di Vò. Le loro paure vennero al più presto stroncate poichè furono gasate. Circa negli anni settanta Primo è morto a Padova, dove aveva trascorso l’ultimo periodo della sua vita. Luciana, la figlia, terminati gli studi si è sposata e ha avuto due figli. Oggi la famiglia Zevi, costituita da brave e oneste persone, viene ricordata da tutti positivamente”.

Antonio Sette abitava in via Pozzetto, in una casa colonica prossima a via Ghetto. Qui la famiglia di Umberto Primo Zevi rimase nascosta per ben diciotto mesi, sotto falso nome e lasciando intendere di essere di origine francese conoscendone Umberto perfettamente la lingua. Terminata la guerra, egli fu riassunto presso la filiale di Monselice della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo lavorandovi fino alla pensione. Nella nostra città, ancora negli anni sessanta, Primo era conosciuto e stimato anche per l’interesse e l’impegno profusi nel settore sportivo. Di Antonio Sette si è smarrito invece il ricordo, come è successo per altri oscuri, piccoli “eroi” di un passato che fatica a riemergere con i giusti colori e nemmeno il voluminoso dattiloscritto premiato nel 1999 ha fatto sì che Antonio con la sua famiglia venisse riproposto a mo’ d’esempio nostrano a una società permeata da egoismi di ogni genere.

L’articolo sul Mattino del 13 febbraio 2017

 



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