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El Bissogà’o e altre leggende del Montericco

Bissogà'o

Storie e leggende del Monte Ricco: sintesi tratta da In-Canto per la Bassa. Vecchie storie di una terra antica di Roberto Valandro

Roberto Valandro ha raccolto in questo libro, pubblicato nel 1984 dalla Libreria Editrice Zielo, le preziose testimonianze orali degli anziani abitanti del Monte Ricco sulle tante storie legate al colle monselicense. Un cospicuo patrimonio di leggende, usanze e tradizioni, alcune particolarmente curiose, tramandato per secoli di generazione in generazione, che rischiava di andare perduto e invece è stato conservato. Racconti che ci consegnano una nitida fotografia della civiltà contadina di un tempo, delle sue speranze, paure e credenze, permettendoci dunque di riscoprire le nostre radici.

DUE STORIE

La regina della Rocca e Sarpedone re del Montericco

Secondo la leggenda Egina era la regina della Rocca, Sarpedone re del Monte Ricco. Dopo lo  scontro tra i due sarebbe sorta la città murata, Monselice. Un anonimo autore ottocentesco ha colto, inconsapevolmente, la diversità di fondo, concentrando in Egina, grande amatrice, le qualità di una civiltà sdolcinata e se si vuole frivola, ma evoluta, urbana, lasciando a Sarpedone il compito di rappresentare la rozzezza e la primitività (“Questa signora si chiamava Egina/ bella come una stella a quel che dice/ gallica storia molto peregrina… Nel vicin Montericco avea suoi predi [possessi] / un superbo gigante degli Argivi / era il più bel di tutti i Ganimedi / e divorava gli animali vivi / sublime [alto] egli era almeno nove piedi, / sitibondo di sangue esangue a rivi….).

Il Signore e San Giuseppe al laghetto della Costa

Il laghetto preistorico della Costa era sentito come un’appendice del Monte Ricco. «Una volta passò per il paese un uomo dall’aspetto distinto, con barba e capelli molto lunghi, accompagnato da on musso (asino) e da un giovane. Arrivati al convento di monache che sorgeva sulle rive del lago, si fermarono e il giovane per ben tre volte bussò alla porta e per altrettante gli fu risposto in malo modo e vennero alla fine scacciati. I due allora si incamminarono per il Monte Calbarina, colle dalla forma dolce situato a nord del Monte Ricco. Ad un tratto il giovane si girò a guardare il convento dall’alto, ma ai suoi occhi apparvero una colonna di fuoco e del fumo nerissimo, mentre l’acqua stava sommergendo ogni cosa. Chiese allora al compagno: «Maestro, perchè?» «Hanno rifiutato di ospitarci!». Il maestro e il ragazzo erano il Signore e San Giuseppe».

CREATURE MAGICHE E SUPERSTIZIONE

Casa Zancanella ai piedi del Montericco

Fate

El Buso de’è fade era un antro scavato nella roccia, a ridosso della cava Zancanella, in contrà Pignara. Lo abitavano le ‘fate della notte’ e pare che, in un lontano passato, vi si riunissero delle vecchie per filare con il fuso. Accanto, in un piccolo torrente oggi rinsecchito, presso le Vasche, le fade si mostravano nelle loro incombenze notturne ed erano guai per chi fosse stato sorpreso ad osservarle. De fade, in Arquà, non si è mai sentito parlare, ma la vecchia Anèta sa che al Monte Ricco ce n’erano molte e si potevano incontrare al Calto dè’e fade. Un suo nonno, che desiderava comprarsi un pezzo di terra, «quando seppe che era situato proprio vicino al Calto dè’e fade, non ne volle più sapere e ci rimise volentieri i çento franchi che el gavèa dà de capara! (“I cento franchi che aveva dato come caparra”)». «Le fade appartenevano sempre al mondo delle streghe, ma erano spiriti buoni: apparivano infatti sotto forma di bellissime fanciulle con addosso vesti candide e trasparenti. Uscivano dal Buso durante la notte e fno all’alba lavavano i loro veli nel torrentello che scendeva dal monte, alle Vasche. Oltre che lavandaie, erano anche leggiadre ballerine e passavano ore e ore danzando all’aperto, sotto la luna e il cielo stellato, e alle prime luci dell’alba tornavano al loro invisibile regno d’ombre». «Mio nonno – racconta sempre la vecchia Rosa – una notte si avventurò proprio alla volta del misterioso Buso per spiare quelle creature fantastiche. Una di loro percepì la presenza del giovane e gli si avvicinò rimproverandolo: – Ricordati che questa è la prima e l’ultima volta che vieni qua. Che non succeda più, altrimenti non vivrai! E così il giovane tornò a casa sbigottito e pieno di paura, ma incantato dalla meravigliosa creatura».

Streghe

Nelle propaggini meridionali del colle, sotto la Cava dè’e more, cresceva un bellissimo frutteto stregato. Un fico in particolare lo consideravano maledetto: di notte, dal tronco, uscivano le streghe per ballare attorno all’albero e cantare uno stran ritornello:- Prima, co jèrino vivi/ magnàvimo sti fighi, / dèsso, ca sèmo morti / canpagnèmo pai campi nostri (“Prima, quando eravamo vivi, mangiavamo questi fichi, adesso che siamo morti ci aggiriamo per i nostri campi”).

Il castagno

Un luogo frequentato senza timore era invece el Maronaro, sulla gobba del Monte Castello, presso cava Antenori. Un albero centenario si alzava maestoso, con un tronco così grosso che due uomini non riuscivano ad abbracciarlo. Negli anni in cui la fame si faceva sentire, la gigantesca pianta diventava meta quotidiana di tanta gente. Accendevano il fuoco sotto i rami nodosi e ne cucinavano i lucidi frutti dal tenero cuore bianchiccio. Queste riunioni comunitarie sotto el Maronaro hanno il sapore genuino di cerimonie primitive, passate indenni attraverso il medioevo.

 Dicerie

Abbiamo prove concrete della presenza di una forte mentalità superstiziosa nel Monselicense. Ecco di seguito alcune dicerie, secondo quanto riportato da Carturan.

– Non bisogna tagliarsi le unghie la sera, perchè si accorcia la vita.

– Se si viene punti da una zanzara o toccando un’ortica la pelle resta irritata, per non soffrire basta tracciare un segno di croce con un’unghia o qualcos’altro.

– Non bisogna lasciar fuori la biancheria di notte, perchè le streghe la possono contagiare e maledirle.

– Per premunirsi contro le streghe, basta mettere sotto il cuscino degli sposi un santino e un pezzo di cera.

– Per tenere lontane le streghe dai bambini appena nati basta applicare agli indumenti o alla biancheria un sacchetto di garza con un pezzettino della çera dè’e tre cane, la cera che il venerdì santo gocciolava dalle candele dell’arundine, un candelabro a tre punte.

– Per sottrarre gli animali all’influsso malefico delle streghe basta appendere attorno al collo dei nastri rossi oppure applicare alle porte delle stalle dei mazzi o delle corone di pungitopo.

– La prima notte di matrimonio gli sposi non possono spegnere il lume, perchè uno dei due presto morirebbe: a farlo sarà un parente o un compare.

– Per allontanare streghe e maledizioni basta mettere un rametto d’ulivo in un bicchiere d’acqua e lasciarlo lì finché l’acqua non si consuma.

– Porta disgrazia rompere una bottiglia d’olio di venerdì e spargere il sale.

– Porta sfortuna sposarsi o intraprendere un viaggio di venerdì.

– Se a qualche ragazza si scopa sui piedi, questa corre il pericolo di non sposarsi più.

– Se si scopa fuori di casa dopo le sei di sera, si butta fuori la fortuna.

– La comparsa dell’arcobaleno, l’arcoçeleste, ha molti significati a seconda dei colori che prevalgono: con il giallo ci sarà abbondanza di grano, con il rosso abbondanza di vino, e dove ponta morirà un albero.

– Il tredici porta sfortuna, specie il tredici di marzo: viaggiare in questo giorno significa accaparrarsi l’infelicità per tutta la vita.

– I pezzi di pane non vanno mai capovolti sopra la tavola perchè chiamano carestia.

– Quando la civetta canta, uno lì attorno morirà presto.

– Togliersi la fede porta male, fa morire l’altro coniuge.

– Il primo di gennaio, se la prima persona a far visita ad una famiglia è un uomo, porta fortuna, se è una donna, sfortuna.

 TRADIZIONI

Primo marzo

Il primo marzo, di sera, si percorrevano «le vie al frastuono assordante di recipienti di latta percossi a mo’ di tamburo». In questo stesso giorno e per tre settimane consecutive si praticava un’usanza  insolita: bisognava, dopo essersi alzati dal letto, uscire dalla stanza e poi di casa camminando all’indietro, recitando la formula: – Marso marsòn, intìnseme el culo e no el muso (“Marzo marzone, fammi annerire il deretano e non la faccia”)». Le ragazze uscivano camminando all’indietro fino al pozzo: giunte qui, buttavano un sasso, e così evitavano che la loro pelle diventasse scurissima.

Sagra delle uova

Nei periodi delle feste pasquali, nella nostra città e in particolare in piazzale della Rotonda, si svolgeva una specie di sagra delle uova. Venditori ambulanti portavano sul posto ceste ricolme di uova sode per lo più tinte di vari colori, con predominio del rosso. Si aprivano quindi delle gare  molto concitate fra monelli, giovanotti e anche anziani: perdeva chi, impugnando un uovo e lasciandone scoperta un’estremità, cozzava con altre mani armate allo stesso modo e… rompeva per primo la propria preda. Un altro gioco consisteva nell’appoggiare un uovo al muro o a un sasso: i contendenti dovevano colpirlo da una certa distanza con monete di rame, scagliate di taglio e per un numero prestabilito di colpi. Vinceva uovo e monete chi riusciva per primo a conficcare nel bersaglio il suo  proiettile.

El còrlo

Al Monte Ricco «durante la notte del primo maggio i ragazzi facevano alle ragazze el còrlo. La cosa consisteva in un disegno tracciato sui muri delle case o su pezzi di carta da appendere lì vicino a qualche ramo. Di frequente si trattava di vere e proprie vendette che i fidanzati ripudiati o i pretendenti respinti consumavano contro giovani che rischiavano così di perdere “l’onore” anche se non avevano fatto nulla di male». La testimonianza si completa con tratti decisivi: «El còrlo era un pupazzo fatto di legno e stoffa, con il quale venivano spaventate le ragazze che tornavano a casa alla sera tardi. Questo pupazzo veniva pure usato per deridere le ragazze un po’ troppo “esuberanti”… Lo appendevano a una povolata (“albero”) e portava un cartello su cui stava scritto il nome della ragazza».

Scherzi paurosi

 «Una volta al Monte Ricco gran parte dei suoi abitanti credeva che i morti venissero dall’oltretomba per trovare i vivi; per questo tutti avevano paura di passare davanti ai cimiteri di notte». Qualcuno però si divertiva alle spalle dei tanti “creduloni” e, dopo aver svuotato del contenuto grosse suche (“zucche”) marine, ne intaccava la dura scorza ricavando orribili maschere. Con una candela accesa all’interno e appese ai rami di un albero, ad un crocicchio, lungo una strada solitaria o dietro una curva improvvisa, provocavano spaventi indescrivibili, mettendo in fuga anche i più coraggiosi.

Rogazioni al Monte Ricco

«In occasione delle “rogazioni” (“preghiere”) al Monte Ricco, l’altare più grande era quello sistemato in via Isole verso monte. Dietro una casa, in una nicchia scavata nel muro, era dipinta una Madonna. Il costruttore, sempre lo stesso, tendeva da una parte all’altra della strada dei fili di ferro su cui appendeva lenzuoli bianchi. Di fronte alla nicchia innalzava un altare a gradini, ornato di fiori, mentre lì vicino sistemava le offerte di tutta la contrada: uova, verdure, conigli, colombi, polli, soldi. La processione muoveva da San Paolo e arrivava fino al capitello. Qui si fermava e il prete, dopo aver benedetto le crosète, piccole croci di legno piantate poi nei campi di grano o infilate in testa alle bine per proteggere i raccolti dal maltempo, raccoglieva le offerte e tornava indietro».

Madonna del Carmine

Ma processione e sagra, per i montericcani, voleva dire la festa de’a Madòna dei Carmini. «La Madonna del Carmine si celebra il 16 luglio. Per la gente del Monte Ricco è sempre stata una ricorrenza capace di suscitare un fervore e un entusiasmo senza paragoni. I montericcani non avevano fama di persone religiose e praticanti, ma quella dei Carmini era una festa intoccabile». Un tempo si svolgeva nella chiesetta settecentesca che sorge in vicinanza del “porto” sul canale Bisatto, lungo l’antica direttrice che conduceva ad Arquà. «…. Le cerimonie duravano un solo giorno, ma erano così piene che valevano per una settimana».

 RACCONTI ANIMISTICI E ANIMALI MAGICI

I racconti, di solito piuttosto indefiniti e vaghi, messi in bocca ai montericcani si storicizzano: si nota lo sforzo di ricondurre episodi stregonesco-animistici a fatti di cronaca. Dietro si agita tutto un mondo di sofferenze, di illusioni, di tensioni psichiche, di credenze sotterranee, di convinzioni irrazionali che emergono, dando vita a storie.

Fantasmi

«Molti e molti anni fa viveva al Monte Ricco on vècio (“vecchio”) de nome Cuco. Una notte andò a caccia da solo, com’era solito fare, ma questa volta gli accadde un fatto strano. Verso mezzanotte udì delle voci che dall’alto del colle si propagavano verso valle: era impaurito da un rumore sordo di catene che sembrava avvicinarsi. Si rifugiò nel bosco vicino alla cava, ma inutilmente: bianche figure si stavano avvicinando. Salì sopra un albero, con la speranza di non farsi scoprire, ma gli spiriti lo videro e circondarono la pianta. Subito presero a colpirlo con le catene che tenevano in mano e l’uomo, per difendersi dai ripetuti assalti, urlò trevolte, senza mai riprendere fiato, una formula magica: – A’nema terena / stame tri passi indrio / e còntame la to pena! (“Abima terrena stammi tre passi indietro e raccontami la tua pena!”). I fantasmi, di colpo, scomparvero. Lui scese dall’albero e barcollando tornò a casa, dove la sorella lo accolse spaventata e gli medicò una profonda ferita alla gamba. Da quella infausta notte el pòro (“povero”) Cuco restò zoppo».

 La Scrofa, la capra e l’omèto rosso

Al Monte Ricco viveva una scrofa che si presentava al tramonto nelle corti (“cortili”) di varie famiglie. «Una sera, affacciandosi alla finestra, i frateli di Rosa si accorsero della presenza di una scrofa che scorrazzava con i suoi piccoli. Credendola di un vicino, ne organizzarono la cattura per riconsegnarla, ma l’animale sembrava inferocito e tentò di aggredire gli uomini che lo circondavano. Impauriti, si chiusero in casa e all’avemaria la scrofa se ne andò con tutti i porcellini». Anche una capra si materializzava qua e là, nelle stesse ore pomeridiane: provarono ad afferrarla più volte, ma inutilmente. Solo che la capra non fuggiva e sfidava imperterrita gli impotenti cacciatori improvvisati. E ai bambini che avevano il coraggio di salire sul monte da soli appariva invece l’omèto rosso, un essere che poteva assumere la fisionomia di molti animali, preferendo tuttavia il cane, e di questi imitava paurosamente i versi.

L’orco

Il re delle metamorfosi era comunque l’orco, un personaggio cattivo: si trasformava in mulo per scalciare i passanti, in cavallo per rovinare i raccolti calpestandoli, in uomini vestiti di bianco per spaventare la gente di notte, in ombre per rincorrere gli incauti passeggeri, in maiali per raggirare  il campagnolo ingenuo: rinchiusi nel porcile, si tramutavano subito in zucche o sparivano all’improvviso. Temutissimo el passo de l’orco, l’orma invisibile lasciata lungo la strada che percorreva: se uno, incautamente, aveva la sfortuna di metterci sopra un piede, non riusciva più a muoversi. E accanto all’orco mettevano paura i scanpi, esseri incorporei che si annidavano in mezzo al granoturco, al formentòn, rubavano le giacche ai lavoranti, si sedevano sopra le loro scarpe facendole diventare pesantissime o impedendone il cammino.

«Una sera un giovane tornava dopo la consueta visita alla morosa. Durante il viaggio on’orco gli montò sulle spalle e si fece portare fino a casa. Giunto nel cortile, l’inatteso ospite saltò giù e si trasformò in un bel vitello. Il giovanotto si affrettò a chiuderlo nella stalla, immaginando di ingrassarlo e di ricavarne un lauto guadagno. Nella notte il sonno fu interrotto da strani rumori provenienti dal vigneto e quando la mattina si alzò, trovò tutte le viti rovinate per terra. Corse allora in stalla, per consolarsi almeno del ‘suo’ vitello, ma anche questo era scomparso. L’orco, per vendetta, gli aveva distrutto il vigneto».

«Una mattina un contadino vide in mezzo al sò spagnaro un vispo agnellino. L’uomo se lo caricò sulle spalle felice e contento, avviandosi diritto verso casa. Camminando cominciò a sentire un peso sempre più insostenibile ed esclamò: – Che pesante ca te sì!– Rispose pronto l’agnello:  – A sò bè’o graddo, ciò!- Sentendolo parlare, il contadino fu preso dal terrore, si scrollò di dosso l’animale e scappò via senza voltarsi. Aveva incontrato l’orco».

L’orco musso

Tra Arquà e il Monte Ricco aveva stabilito il suo regno un orco tutto speciale, l’orco musso. «L’orco ga fatto on gran piassère a me bisnòno. Una notte, mentre si avviava verso il Monte Grande (Teolo) per raggiungere il suo campetto, sentì afferrare le ceste di letame che portava con sè. Si voltò meravigliato e vide l’orco, comparso sotto forma di asino, che si era caricato subito in groppa il pesante fardello, dirigendosi veloce alle terre da concimare. Quando mio bisnonno arrivò, l’orco gli aveva già fatto il servizio completo, con il letame ben sparpagliato intorno».

L’orco, secondo le descrizioni di molti, a volte si mostrava enorme: metteva una gamba sui runchi e l’altra sul Monte Calbarina e, di notte, chiamava le persone per impaurirle. Di solito però lo incontravano trasformato in musso. Allora el jèra bon e el fasèa tanti piasseri (“Era buono e faceva tanti favori”): ad esempio, saliva su Monte Fasolo, caricava le donne nelle due ceste che teneva ai fianchi e le portava diritto al mercato, a Este o a Monselice. «Una volta un uomo, dopo aver camminato per un bel pezzo, si fermò a ciapare el fià (“prendere fiato”) sotto la maronara dè’a crose. Qui trovò on musso che si mise a parlare e gli raccomandò di aspettarlo perchè, di lì a poco, sarebbe tornato e lo avrebbe accompagnato a destinazione. L’uomo attese paziente e, dopo èssare montà in gropa a l’orco (“dopo essere salito sulla schiena dell’orco”), arrivò a Padova in un baleno». L’orco musso appariva solo di sera, dopo l’avemaria, e spariva al primo chiarore dell’alba. La gente era indispettita per questo animale stravagante, che si presentava ovunque, senza avere il suo posto fisso, la tana, come tutti gli altri esseri che popolavano il colle, e cercava di giocargli brutti scherzi…

Una variante descrive l’orco-musso come un essere imponente, malefico, di cui nessuno conosceva il rifugio, con un’unica caratteristica ben visibile, «quella di avere la testa d’un asino». «Una sera, dopo il tramonto, un giovane che si chiamava Barbacoche tornava da Arquà dove si era recato in visita alla fidanzata. Ad un tratto si accorse di uno che lo seguiva, ma non riusciva a vederlo. Si guardava attorno impaurito e intanto aumentava il passo. Ma ecco che una forte risata alle spalle lo fece sussultare: alzò gli occhi verso on salgaro (“un salice”) lì vicino e vide l’orco. Un attimo e questi, per spaventarlo a morte, si gettò dentro il fosso accanto alla strada e fece uscire tanta acqua da travolgere e risucchiare il povero Barbaroche. Al mattino i contadini, mentre si recavano al lavoro, trovarono il corpo annegato e subito dissero che era stato l’orco a vendicarsi, perchè il giovanotto lo aveva incontrato di notte».

Quest’orco con la testa di asino, che minaccia e difende un dato territorio, che punisce gli ‘invasori’ noturni, potrebbe essere legato al ricordo degli antichi segnali di confine.

 Serpenti

Bissogà’o

Animale caratteristico dell’area collinare era il serpente: basalisco, maronasso, basavèsco o bissoga’o che dir si voglia, è segnalato in molti luoghi, anche se tra Marendole, Arquà e il Monte Ricco le tracce si fanno corpose. «El basavèsco era un grosso serpente, dalle dimensioni di un uomo, che di notte si incontrava per i campi nel periodo della mietitura, in giugno, e della vendemmia, in settembre». «El bisso-ga’o era un lungo serpente, imponente, che portava sulla testa la caratteristica cresta. Questa serpe gigantesca faceva il verso del gallo e tutti i montericcani dicevano di averla sentita cantare di notte. Il suo stridulo chicchirichì incuteva paura e chi lo ascoltava si ficcava sotto le coperte, cercando di addormentarsi il più presto possibile».

Al Monte Ricco lo chiamavano anche maronasso, basalisco. Tutti i vecchi montericcani affermano di averla vista e sentita: era una biscia non molto lunga. Se però le veniva tagliata la coda, cresceva in maniera abnorme, si ingrossava e le spuntava una cresta da gallo e, cosa incedibile, ne imitava il chicchirichì. «Milio Bernardini era diretto al Calto dei maronari. Ad un tratto scorse sopra una vigna un animale indefinibile: sembrava addirittura un tacchino. Ma più si avvicinava, più la bestia si ingrossava e si allungava. Immaginando con chi aveva a che fare, corse dalla sorella Rosa, prese il fucile ma, tornato sul posto, non vide più nulla».

«Una sera, sul tardi, due amici si avviarono a un fico per rubarne i frutti: un vero e proprio dispetto contro il proprietario, uomo cattivo e avaro. Ma al momento di mettere le mani sui fichi, sentirono il canto del gallo. Tra le foglie comparve, minaccioso, el bisso-ga’o…. e furono costretti a rinunciare alla piccola vendetta». La gente assicurava che il suo aspetto, ma soprattutto il canto, erano terrificanti, e molti lo usavano quale valido deterrente psicologico per convincere i ragazzi a non allontanarsi da casa, specie con il buio. – Varda che te cati el bisso-ga’o (“Guarda che trovi il serpente”), minacciavano le madri, e i piccoli si rintanavano tranquilli tra le gonne delle nonne, attorno al focolare.


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