Riccardo Averini nacque il 3 aprile 1915 a Sarego, una cittadina vicentina, da Alberto ed Elvezia Vitelloni, di nobile stirpe. In famiglia seguirono le sorelle Francesca (1916) ed Emilia(1918) con i fratelli Camillo (1918, sopravvissuto pochi mesi) e Francesco (1922). Il lavoro del padre, medico condotto, portò Riccardo a Ferrara, dove affrontò gli studi liceali, e poi a Padova, dove si laureò in Lettere e Filosofia con Diego Valeri discutendo una tesi su Apollinaire. Interruppe tuttavia il regolare corso universitario per entrare nell’aeronautica militare da cui uscì pilota da bombardamento. Attorno ai diciott’anni (1933) risalgono le prime esperienze letterarie, con una poesia in particolare dedicata al fratello Giuseppe,
prematuramente scomparso a 23 anni. Il padre era intanto approdato a Monselice nel 1934 quale medico condotto e Riccardo si trovò subito coinvolto nell’allora fermentante piccolo mondo paesano, che vide la fondazione, nel luglio del ’36, di una specie di club legato al Movimento artistico-letterario Futurista. Il merito andava a due giovani pittori nostrani, Corrado Forlin e Italo Fasullo (Fasolo) sostenuti da Filippo Tommaso Marinetti, loro convinto patrocinatore e guida politico-spirituale. Nasceva così il Gruppo Savarè di intonazione fascisteggiante, ultimo conato di sapore provinciale di un Movimento artistico come il Futurismo, considerato oggi tra i più significativi della prima metà del novecento. Al “manifesto” del Gruppo monseliciano, apparso il primo gennaio 1937, aveva aderito con entusiasmo pure Riccardo assieme ad altri coetanei, responsabili della “sezione letteraria”. E agli anni immediatamente successivi corrisponde la sua produzione poetica futurista, piuttosto nutrita e di cui divenne esempio emblematico l’ampio componimento intitolato Vertigine di quota. Nel ’42 l’avventurosa vicenda del Savarè si chiudeva con la partenza per la guerra dei due capofila, Forlin e Fasullo, sacrificatisi come tanti altri combattenti per la “gloria” di una Patria oramai in totale sfacelo, prima di tutto morale. Anche Riccardo partecipò al conflitto quale pilota sul fronte greco-albanese; restituito alla vita civile, mise radici a Roma, intraprendendo la carriera di docente universitario e di diplomatico, in Italia e fuori d’Italia. Le sue opere più significative riguardano infatti saggi di storia dell’arte e traduzioni di autori portoghesi: furono anni assai fruttuosi, che si conclusero a Roma nel 1980, onorato dal Portogallo per gli speciali meriti culturali. Tutto questo, e molto altro ancora, è leggibile e godibile in una dettagliata biografia edita nel 2016 e intitolata: L’eoropoeta Riccardo Averini. Intimista Futurista Diplomatico. Ne è diligentissimo e partecipe redattore Alberto Toninello, nipote dell’Averini, grazie alla mamma Emilia, sorella di Riccardo (Roberto Valandro)..
Dal suo libro, La vita e il tempo pubblicato da Mursia nel 1985, abbiamo tratto alcune sue poesie.
Barconi sul Bisatto
Un’aspra voce le spinge
dentro la folta nebbia
sul liscio canale:
vanno le lente barche
al traino dei tozzi cavalli.
Gli uomini affondano i remi
o li sollevano contro l’argine
scandendo il ritmo dei passi
a ritroso sul bordo piatto.
Vagabondaggi sogna
e mari aperti
sull’arco del ponte
il fanciullo che guarda.
Monselice, 1933 (1937)
Canzoniere di Edith
1. Esile, glabra, platinata Edith,
vorrei che ti lasciassi accompagnare
(un poco?) nella strada che percorri.
T’offro la mano: non ne diffidare.
Rispetterò il silenzio che ti chiude:
non chiedo che su me levi lo sguardo.
Mi basta solo averti a lato: udire
il tuo lieve respiro ed il fruscio
dei tuoi piccoli piedi sulla ghiaia.
2. Se ancora tutto accade come ai tempi
antichi e labbra ed occhi sono i luoghi
ove Amore s’insedia e si rivela,
io ti ho già visto, già tu mi appartieni,
esile, glabra, platinata Edith.
E già so come parli e come ridi,
come sciogli i capelli e come canti
alla finestra, quando viene maggio.
3. E i miei poeti già m’hanno avvertito
che invano aspetto un cenno o una parola.
L’amore, quando è vero, è sempre e solo
un disperato eterno soliloquio.
1938
Calaone
Dal pertugio
che l’alba schiude
nel gran muro
dell’orizzonte
cavalca
la fatua parata
di cherubini rossi
e di cigni
lente s’appostano intorno
ombre enormi di cavalli
e scrollano siepi di brina
quale segno è nel sogno?
l’orto
il colle
il frinio delle stelle
chiuse nel cerchio
del pozzo
riducono il mondo
al limite d’uno steccato
è più largo
l’inferno
1946
Un giorno da beduino
Nell’orizzonte perduto
della vita tu fosti
l’oasi dove ho vissuto
soltanto un giorno
da beduino.
Pellegrino
mi son trattenuto
in altri posti
e non ho più voluto
fare ritorno.
Ma il sapore del latte
di capra e dei datteri
con cui m’hai nutrito
m’è rimasto in gola
e la nostalgia
n’ha fatto parola
accorata di rimpianto
per non averti più accanto
per essermene andato
stupidamente via.
1963
In memoria di Diego Valeri
Chi più sentirà
parole pacate
ch’erano
come acque lagunari
filtrate
sulla soffice rena
degli estuari?
Chi più vedrà
accendersi il viso
al lampo improvviso
della pupilla serena
eluso dal ciglio socchiuso?
Frulli d’ala.
Ora che sei muto
nel silenzio assoluto
l’anima esala. (Il giorno della morte di Valeri)
La misura del tempo
Qual è, Tempo, la vera tua misura?
Quante stagioni sono passate senza
lasciare un’ombra, un segno una parvenza,
dissolta in fumo ogni esile orditura.
E invece d’attimi e momenti dura
la luce e l’eco in fondo alla coscienza
e non ha il loro alone dissolvenza:
nè la distanza li assotiglia e oscura.
Resta intatta la loro intima “ratio”
e dai piccoli nuclei penetranti
raggi giungono fino alla memoria
emersi nella lunga traiettoria
d’un tempo che le s’erge ognor davanti:
attimi che di secoli hanno spazio.
1975
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