Bisogna immaginarsi la Monselice degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso: via Roma e piazza Mazzini, una sequenza ininterrotta di negozi storici, che solo a nominarli a qualche monselicense spuntano i lucciconi; compagnie infinite di ragazzi, ciascuna con il proprio bar punto di riferimento, i gradini della San Paolo e quelli di Bellenghi, postazioni fisse per i giovani, dove sbocciano amori e amicizie, a volte spunta una chitarra, si inventa qualche scherzo ai danni del più ingenuo nelle lunghe calde serate estive, si impara la vita. Dal Bar pasticceria Dal Din, in posizione strategica, all’imbocco di vicolo Tre Torri che conduce alla zona turistica e panoramica della città, si spande un profumo di dolci appena sfornati. Entriamo: arredamento in legno scuro, specchi sulla parete a destra dell’entrata sopra una lunga panca foderata con un altrettanto lungo cuscino di pelle verde scuro, tavolini di marmo su piedi di pesante metallo, circondati da sedie dello stesso legno, il bancone, la parete alle sue spalle, la vetrinetta con dentro piccoli gioielli usciti dal forno di Anteo.
La domenica, usciti da messa, era d’obbligo fermarsi a prendere le “pastine” che lui, Anteo, sceglieva, depositava amorevolmente nel vassoietto, incartava con la leggera carta disegnata di azzurro e consegnava, non senza qualche rimpianto, all’impudente cliente che si permetteva di separarlo da quel tesoro.
Ed erano veramente un tesoro quelle “pastine”, preparate con scrupolosa, affettuosa cura dal loro creatore, tanto da chiamarne un tipo col nome di sua figlia: Lorena, la pastina più buona. E poi i cannoncini con la crema, le favette dei morti a Ognissanti, i crapfen alla marmellata a carnevale, le befane in concomitanza con l’Epifania, le torte alle mandorle, gli strudel con i pinoli … e le “francesine”, le più preziose, tenute nascoste sotto il banco per essere consegnate in poche pregiate unità solamente ai veri intenditori. La pasticceria Dal Din aveva un prestigio da difendere: nella classificazione di allora era al posto più elevato, alla pari col Pedrocchi di Padova, e doveva necessariamente garantire alla sua clientela la massima qualità dei suoi prodotti, come la scelta delle birre, già in tempi così lontani, particolarmente accurata e vasta.
Quando ancora non era in uso creare salottini anche all’aperto per sorseggiare un caffè o un liquore, alcune seggioline dall’interno venivano trasportate all’esterno, nel vicolo, per godere dell’aria aperta e, nelle sere d’estate, per guardare la televisione, arrampicata sopra un trespolo altissimo, non di rado in compagnia del titolare. Spesso gli facevano compagnia le solite personalità monselicensi, che si mescolavano con la meglio gioventù. Col tempo le sedie di legno furono sostituite da altre di plastica gialla intrecciata, novità introdotta da un’altra nascente importante realtà monselicense. Tra giovani e meno giovani scaturivano talvolta discussioni, vivaci scambi di opinioni, anche (perchè no) politiche o sportive, guardandosi in faccia, non da dietro una tastiera… Ma non di sole “pastine” viveva la Pasticceria Dal Din. Lì si poteva anche sfidare la sorte sia compilando al momento la schedina del totocalcio, sia anche sfruttando quella nuovissima novità di acquistarne di già compilate (indovinate da chi) con qualche sistemino. Il salotto buono del centro del “paese” (a quel tempo non eravamo ancora “città”) frequentato da nobili e plebei, ugualmente accolti con ruvida bonarietà. Ai bambini la cioccolata con la panna, ai grandi un caffè o un vermut. Peccato.
I ricordi di Carla Montelatici: Chiedermi di ricordare la pasticceria Dal Din è un po’ come invitare la lepre a correre. Ho vissuto l’infanzia e la giovinezza a pochi metri dalla mitica pasticceria di Anteo Ziron e per me il profumo che riempiva Vicolo Tre Torri uscendo dalla grata del suo laboratorio è ben più delle madeleines di Proust! Da bambina le vetrine, gli specchi, gli arredi, i grandi vasi di vetro pieni di caramelle e cioccolatini erano un mondo incantato. Mi dava anche un po’ di soggezione entrarci, la domenica mattina a mano del babbo tra signori e signore ( poche per la verità) sceglievo le pastine col naso quasi incollato alla vetrinetta di cristallo rialzata sul bancone: Anteo o la signora Bruna le prendevano delicatamente con la pinza, le adagiavano amorevolmente sul vassoietto di cartone e poi, avvolte nella carta azzurrina le portavo a casa col dito infilato nel nastrino pure azzurro. E il passare delle stagioni sottolineato dalle specialità della tradizione: le favette dei Morti, la mostarda nella mastellina di legno, gli Strigozzi per la Befana con i confettini argentati spaccadenti come occhi. Le torte non erano certamente seconde alle pastine: la torta di mandorle, la pinolata e la inarrivabile francesina che “no, dopo giugno non la faccio più che fa troppo caldo” ! Tragedia questa dato che io compio gli anni alla fine di Maggio e mio marito ai primi di Giugno, ogni anno il rischio di non averla era grande! Il ricordo più dolce però ( è proprio la parola giusta ) è la torta che Anteo ci regalò per il nostro matrimonio: una fantastica Bresciana con tanto di macchinina da rally e percorso tra gli amaretti che lasciò tutti a bocca aperta prima… e piena poi.
Un ricordo pubblico e avvenuto il 7 aprile 2018 alla Loggetta, nell’ambito della rassegna “Monselice Scrive”.
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