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Ladri, assassini e briganti a Monselice

Stele del Delitto Stoppani a San Cosma di Monselice 1932.

Anche a Monselice non tutti erano dei gentiluomini. Qualcuno strada facendo ha fatto il furbetto. La storia ne elenca qualcuno che per necessità o per volontà ha vissuto sopra le righe. Ladri, furfanti o semplicemente delinquenti hanno lasciato un segno – non proprio positivo – nella storia monselicense. Ne presentiamo qualcuno.

Giovanni Visentin detto Scofon, nativo di Pernumia, era servitore in un convento di Padova. Nel febbraio 1750 piantò i frati e andò a fare il bovaio presso la famiglia Baldo, contadini dei dintorni di Monselice. Questa famiglia era composta di tre fratelli: le loro mogli e i figli: tutta gente semplice e superstiziosa. Il furbo Scofon capì subito l’ingenuità dei suoi padroni ed una notte uscì dalla stalla e battendo con un sasso le pareti delle loro camere fece loro credere fossero venuti gli spiriti maligni. Un’altra notte, facendo la voce falsa e uno strepito enorme con le catene che aveva levato ai buoi, finse di essere il demonio.
Quella buona gente spaventata si mise a pregare e lo Scofon, cambiata la voce, disse loro che era l’anima del Re di Lisbona che era in purgatorio da trecento anni insieme con altri quattro Re, quattro cavalieri, tre preti e un frate e che volevano indicare al Balbo un tesoro di quattro milioni nascosto sul Montericco e che uscissero subito per seguire le anime altrimenti avrebbero indicato il tesoro al Bovaio Scofon.
I poveri contadini per paura, trascurando il tesoro, non osarono uscire, come ben prevedeva il furbo Visentin. Alla mattina egli si presentò al Balbo tutto allegro dicendo che gli avevano indicato dove scoprire il tesoro. La notte seguente si introdusse addirittura nelle camere stesse del Balbo con un altro suo compagno, ricoperti di un lenzuolo e dicendo che erano messaggeri del cielo, si fecero dare dal Balbo 600 lire lusingandoli che avrebbero diviso con loro il tesoro del Montericco e dissero alle donne che loro avevano il permesso dal cielo di usare le mogli altrui ed una infatti si adattò ai loro voleri. Questo gioco duro 18 mesi, finchè, sparsasi la voce nei dintorni, venne alle orecchie dell’autorità. Arrestato lo Scofon ed il suo complice con la grave deposizione delle loro vittime, vennero condannati a 18 mesi di carcere. Esiste nell’archivio Civico di Padova la sentenza in data 2 agosto 1752. Gianmaria Furin detto “Ava da Monselice e Antonio Favero da Camposampiero.
“Nel 1759 nei territori di Monselice e Conselve, tra Padova e Rovigo, un masnada di banditi aveva messo lo spavento con uccisioni, saccheggi violenza senza rispetto alcuno né all’età né al sesso. L’ultimo delitto era avvenuto il 6 aprile 1759 e fu di una ferocia inaudita, un’intera casa colonica veniva assaltata e dopo aver tutto rubato, uccisi i giovani, violentate le donne, impiccati agli alberi i vecchi, avevano dato fuoco alla casa mentre gli sbirri del podestà Anzolo Malipiero fuggivano spaventati. La Serenissima che in quel tempo occupava il territorio informata dei fatti, mandò tre grandi barche cariche di soldati che presero a battere la campagna verso Monselice. Durò tre giorni la battuta e alla fine un contadino indirizzò i soldati a Tribano e fece anche i nomi dei due capi della banda tali Gianmaria Furin detto “Ava da Monselice e Antonio Favero da Camposampiero. Il drappello si incamminò verso il villaggio e vi giunse a sera: bussò alla prima casa e con minacce di morte confessarono dove erano i banditi. Fu indicata una grande stalla abbandonata al limite estremo del paese. Nel massimo silenzio venne subito circondata e cominciò una vera battaglia tra banditi e soldati.
Tre briganti caddero morti, due soldati gravemente feriti, ma alla fine i soldati ebbero la meglio e ben dieci banditi compresi i due capi furono catturati e legati come salami. Messi i prigionieri sopra un gran carro il drappello riprese la via del ritorno. “Dalle case et da li campi veniva sulla strada tanti e tanti villani a veder il carro ed inteso che erano quelli banditi qual tanta paura avevano fatto tutti in grande allegrezza gridava: “Viva li nostri Signori di Santo Marco”.
Condotti a Venezia, venne fatto il processo a Gianmaria Furin e ad Antonio Favaro. I giudici determinarono la sentenza di morte che fu eseguita nella notte del 5 maggio nella prigione Orba e subito furono fatti appendere per i piedi alle forche tra le due colonne. Il 6 mattina agli altri otto briganti si lesse la sentenza che li condannava a prigione perpetua “negli pozzi a pane e acqua con due zorni de intero digiuno per settimana” e poi incatenati vennero condotti sotto le forche “acciò vedessero appesi i loro capi” mentre il popolo gridava: “Ammazza, ammazza”.

IL Gobbo Bertazzo
Anche a Monselice tra Otto e Novecento proliferarono numerose bande di ladri, anche se i delitti a scopo di rapina sono stati tre o quattro al massimo. Lo stato di miseria della maggioranza della popolazione “favoriva” certamente la nascita di attività losche spesso al di fuori della legge. Ladri e guardie si inseguivano per tutto il Veneto aiutati, i primi, dalla popolazione che in qualche caso simpatizzava per i furfanti. Probabilmente molti atti delittuosi erano all’origine identificati come “furti campestri”: ladri di galline. Spesso però dai pollai si finiva alle rapine in banca.
Tra i delitti più efferati ricordiamo quello accaduto a San Cosma nel 1892. Una ragazzina di nove anni ospitata, nella casa di un certo Breggié fu trovata sgozzata in un prato. Dell’ omicidio fu incolpato, senza prove sufficienti, il Gobbo Bertazzo il quale per procurarsi un alibi avvicinò una donna assicurandole il cibo per l’inverno purchè non dicesse di averlo visto assieme alla ragazzina – tale Pasqualina Paschera. Saputa la cosa tutta la frazione insorse volendolo ammazzare.

Edoardo Toffano (Il bandito)
Tra le persone poco raccomandabili di quel tempo dobbiamo ricordare Edoardo Toffano, un ladro specializzato in casseforti (T. Merlin, Storia di Monselice p. 211 e seguenti). Nel 1926 uccise un certo Alessandro Toffano (anche quest’ultimo non era un sant’uomo: nel 1904 uccise un certo Breggiè per futili motivi). Alessandro, benché d’età avanzata, s’era innamorato della bella Gilda, una nipote che teneva in casa. Alessandro Toffano non tollerava che Edoardo Toffano l’andasse a trovare. Durante una lite Alessandro disse a Edoardo : “Guarda che ne ho già ammazzato uno se non la smetti di venire da mia nipote ammazzo anche te”. Per tutta risposta Edoardo lo uccise. Al processo venne quasi subito liberato, avendo provato di aver agito per legittima difesa.

Delitto Stoppani a San Cosma
Nel 1932 a San Cosma venne trovato ucciso, forse durante una rapina, il veterinario Carlo Stoppani. La vittima era molto ricca, ma tornato dalla guerra, aveva dato gravi segni di squilibrio mentale. La polizia accusò del delitto Edoardo Toffano, ma non riusciva a scovarlo. Toffano era stato segnalato a Milano e, mentre gli preparavano un’imboscata, lui si spostò a Venezia. Lo ricercavano ovunque, ma lui viveva tranquillo in un altro luogo. Si divertiva spedendo lettere che facevano imbestialire la forza pubblica. Alla fine lo catturarono a Fratta Polesine. Al processo però fu prosciolto per il delitto Stoppani, per mancanza di prove. Sul delitto non si riuscì mai a far luce.

 

La scritta “Perenne ricordo del dott Stoppanni Carlo trentanovenne assassinato la sera 21/ 1/ 1932 fratelli posero”. Si trova a San Cosma di Monselice

 

La banda Turato
La prima banda di ladri che ricordiamo è quella denominata “Turato” della Stortola (San Cosma), sgominata nei primi anni ’30 del secolo scorso. Turato era un meccanico di professione: di notte si trasformava in un ladro e con altri sette elementi mise a segno una quindicina di furti di una certa importanza nel padovano, il più grosso dei quali ai danni di una rivendita di tabacchi a Conselve. La banda aveva un armiere, che forniva le armi prima del furto, armi che venivano riconsegnate all’indomani. Un’altra banda specializzata in furti di galline era formata da una decina di individui che agivano a Tribano, Conselve e Monselice, fu arrestata negli anni ‘30. Questa banda aveva già al suo attivo una trentina di furti nei pollai e negli allevamenti di conigli.

La Banda Menandro
Nel 1933 “lavorava” in zona la banda “Menandro”, specializzata in furti con scasso a fattorie. Era un gruppo che dava molto da fare alla polizia che tentava invano di acciuffarne il capo. Costui, un personaggio decisamente pericoloso, aveva ammazzato in conflitto un milite per poter sfuggire all’arresto.

Antonio Carta
Altro elemento pericoloso, di questi anni, era Antonio Carta, già implicato in un conflitto a fuoco con i carabinieri nel 1930. Egli era attivamente ricercato in tutto il monselicense. Spesso i frutti dei suoi colpi erano scoperti dai carabinieri che perquisivano le case dei pregiudicati, ma di lui neppure l’ombra. Verrà preso assieme ad un compare solo nel 1934, dentro ad una “frasca”, vale a dire ad una bettola campestre in una sperduta località di Pozzonovo.
Nel 1933 a Marendole ci fu un regolamento di conti tra alcuni esponenti della vecchia banda “Trevisan” e, in quell’occasione, un certo Riccardo Furlan, fu colpito all’addome da una lima, lasciandoci la pelle. Ricercati furono un certo Gambato e Severino Urati, un elemento molto giovane ed estremamente pericoloso. L’Urati e il Gambato, infatti, inutilmente vennero ricercati in zona e solo dopo parecchi mesi furono rintracciati a Brescia collegati ai malavitosi di quella città. Durante una rapina, sorpresi dalla forza pubblica, Gambato venne ferito e arrestato, mentre l’Urati, per quanto con una pallottola in una gamba, riuscì a far perdere le tracce. Lo bloccarono a Treviso mentre stava svaligiando un negozio di pellami, ma riuscì a farsi largo e a dileguarsi a colpi di pistola. Lo presero a Cremona, nel marzo del 1935, ancora dopo un conflitto a fuoco. Stavolta l’aveva tradito una giacca dimenticata sul luogo del delitto e dal nome del sarto, la polizia era risalita a lui, braccandolo dentro a una casa. Condannato a nove anni evase di lì a qualche mese per diventare il luogotenente di Giuseppe Bedin.
A San Bortolo di Monselice nello stesso periodo veniva sgominata una banda di ladri di polli che aveva messo a segno una sessantina di furti: stavolta era un certo Molon l’elemento di punta.

Giuseppe Bedin
Per venire a tempi più recenti ricorderemo la banda di malfattori capitanata da Giuseppe Bedin da Monselice di anni 38 di cui erano luogotenenti Ottorino Cartini di Ponte di Brenta, Lampioni Clemente di Legnago e un certo Urati che abbiamo già conosciuto più sopra. Questa banda compiva le sue gesta nel Veneto, Lombardia, Piemonte ed Emilia e fu per qualche anno il terrore di tutte quelle regioni per le continue vessazioni, rapine, omicidi rimasti sempre impuniti. Bedin era abilissimo ed audacissimo nello sfuggire alle continue ricerche e trappole tese dalla polizia. Sul Bedin gravava una grossissima taglia. A dare un’idea di che cosa fosse capace di concretizzare questa banda, basta dire che essa fu autrice delle gravi rapine ad importanti banche e ditte. Tra le molte rubò: 880 mila lire in danno della ditta Pirelli a Milano, di 450 mila lire in danno di in berrettificio, di Monza, di 500 mila lire in persona del Cassiere dello Zuccherificio di Cavanella di Po’, presso Adria, di circa 180 mila lire in danno della smalterie di Bassano e di 12 mila lire in danno di un negoziante di pelli di Cittadella avvenuta sulla strada di Bassano. A carico dei predetti individui esiste negli archivi alla Polizia un grosso fascicolo attraverso il quale si potrebbe ricostruire il loro triste curriculum: dai primi furterelli nelle campagne alle prime ribellioni, ai grossi colpi della città, alla latitanza, ai conflitti, ai tentati omicidi, alle evasioni. Le testimonianze orali ci offrono un’immagine di Giuseppe Bedin abbastanza simile a quella di altri banditi che sono nati in società rurali caratterizzate da forti disuguaglianze sociali. Il Bedin diventò (parafrasando una nota canzone) un bandito “per un torto subito” e da allora si atteggiò a difensore dei poveri, rubava ai ricchi per regalare parte dei proventi delle rapine ai compaesani, agli amici, ai conoscenti che vivevano nell’indigenza. Bedin faceva il muratore, un giorno dovendo pagare una grossa multa per mancata denuncia di un po’ di vino da vendersi alla “frasca”, rubò una moto dentro ad un ripostiglio che aveva appena costruito. Quella multa in fin dei conti la doveva in qualche modo pagare. Si racconta di lui che sul ponte dell’Adige, incontrando un medicante in carrozzella, gli tolse la “sacchetta” e gli messe in mano una somma notevole. Un’altra volta a Rovigo, aveva “deriso” due carabinieri che, avendolo riconosciuto, avevano tentato di arrestarlo. La fantasia popolare lo descrive mentre con grosse auto cromate sfrecciava per le strade della Bassa Padovana. Se la banda Bedin si era procurata una tanto truce fama in Italia e fuori, bisogna dire altrettanto acuta era la critica verso la polizia che non aveva saputo ancora debellarla dopo mesi ed anni di infruttuosi tentativi. Pare che tali critiche abbiano indotto lo stesso Mussolini ad intervenire impartendo gli ordini più severi alle autorità competenti. Fatto sta che furono messi in moto carabinieri e poliziotti in numero eccezionale, i quali arrestarono nelle varie Regioni circa quattrocento favoreggiatori e si poté così stringere sempre più il cerchio di attività della banda. Finalmente nella primavera del 1938 si ebbe l’epilogo di questa triste storia. A ponte di Brenta, in uno scontro con la forza pubblica, venne ucciso il Cartini. Uguale fine fece a Bozzolo di Mantova l’Urati. Il Bedin fu scoperto e rintracciato in quel di Bassano, a Casoni di Mussolente dove, in seguito alla fuga, rimase ucciso in conflitto con la polizia (?) in una casa colonica in cui si era introdotto.

Moro Balle’
Il 1 giugno 1944 durante uno scontro a fuoco fu ucciso all’età di vent’anni il bandito Balle Duilio nato a San Bortolo il 21 settembre 1924 soprannominato  nostra zona sotto il nome del “Moro Balle”. Elementi della Gnr e legionari del battaglione Muti in collaborazione con agenti della polizia repubblicana eseguirono un’azione di rastrellamento nella zona di Fragose, San Bortolo, Carpanedo e Monselice, allo scopo di catturare una banda di rapinatori. Durante l’operazione, contro un gruppo di legionari, vennero sparati colpi di arma da fuoco, subito controbattuti. Rimase ucciso il pregiudicato Duilio Balle, attivamente ricercato quale partecipante alla rapina commessa in danno del conte Alvise Marin Duse, il 27 marzo 1944. Altri banditi, scovati nell’abitazione della sorella del noto pregiudicato Pietro Santi volsero in fuga, abbandonando le armi. Perquisita la casa, furono rinvenute 6 biciclette di provenienza furtiva. Fermate due donne e un uomo colpevoli di aver dato asilo ai malfattori. Secondo il maestro Gattazzo di San Bortolo: “La sua fine prematura destò un senso di inquietudine in tutti perchè era un giovane animoso e che marciava armato delle rivoltelle più rare… però aveva anche un cuore d’oro e c’era ben da sperare che un giorno o l’altro si mettesse sulla buona strada della virtù e della vita proficua. La famiglia trovo modo di lenire i dolore davanti alla culla che veniva ad allietare la casa subito dopo la scomparsa del giovane”. Precisamente Balle fu ucciso presso la casetta dei “Targa” in via , Fragose n. 175, che fu quindi subito distrutta dai Repubblicani, con quelle due stesse bombe a mano, che avevano trovato indosso al Balle, insieme col moschetto e alle famose rivoltelle.)

Clemente Lampioni
Il Lampioni nasce a Legnaro (provincia di Padova), i genitori avevano un piccolo negozio di generi alimentari. Il padre coltivava alcuni campi in affitto e trasportava merce con un carro trainato a cavalli. Conosce una ragazza di Padova e nel 1929, a 25 anni, la sposa andando a vivere a casa dei genitori. Nel 1937 si trasferisce a Granze di Vescovana. Inizia lì un periodo di grandi difficoltà economiche per la sua famiglia che lo spinse ad aderire nella banda Bedin. La Banda Bedin, guidata da Giuseppe Bedin, opera dal 1935 al 1939 compiendo rapine e furti raccogliendo il malcontento della popolazione rispetto alla grave situazione economica della zona. Basti pensare che dopo il 1937 vennero addirittura organizzati degli scioperi in pieno regime fascista. La Banda venne stroncata nel 1939 e Clemente venne processato e condannato a 21 anni di reclusione nel 1940 e portato nel carcere di Ancona. Nel 1942-1943 durante i bombardamenti alleati si offre volontario per disinnescare bombe inesplose tanto da ricevere un permesso premio per vedere i figli. Nella primavera del 1943 il carcere di Ancona venne pesantemente bombardato e dopo che si era prodigato per assistere le decine di feriti per due giorni su consiglio del cappellano del carcere scappò tornando a Padova a piedi. Da subito entra in contatto con i dirigenti comunisti che stavano organizzando la resistenza nel padovano. Il suo inserimento non fu visto di buon grado dai responsabili della resistenza soprattutto per il suo passato nella Banda Bedin ma Clemente “Pino” Lampioni” si rivelò un valido investimento: più anziano (aveva 44 anni) si distinse nel guidare e consigliare i giovani del distaccamento. Ben presto gli fu affidata la responsabilità di una pattuglia. Nella primavera partecipa a numerose operazioni armate guadagnandosi sempre di più il rispetto dei giovani. Nell’agosto del 1944 Clemente raggiunge Padova alla ricerca di informazioni e uomini per completare un’azione di assalto a una polveriera. Ma tradito viene catturato e condotto nel carcere dei “Paolotti”. Venne così impiccato insieme ad altri due partigiani in pieno centro in via Santa Lucia vicino piazza Insurrezione il 17 agosto 1944.

il bandito Clemente Lampioni

 


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