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Il culto di San Francesco Saverio a Monselice (1506-1552)

I relatori del convegno, da sinistra: Giovanni Belluco, Roberto Valandro, Giuseppe Pirola, Fabio Longo

 

Convegno realizzato  in occasione del 500^ anniversario della nascita di s. Francesco Saverio

Opuscolo in PDF con immagini del Santo e del convegno [ Clicca qui…]

IN  COLLABORAZIONE  CON

 PARROCCHIA DEL DUOMO DI MONSELICE

ANIMATORI MISSIONARI DELLA BASSA PADOVANA

CIRCOLO FILATELICO NUMISMATICO DI MONSELICE

Sabato, 30 settembre 2006

Biblioteca del Castello di Monselice

Info sul Santo [ Clicca qui..]

Guy Luis Vernansal (1689-1749), Madonna con Bambino e San Francesco Saverio in un quadro del Duomo di Monselice. Il culto si diffuse anche a Monselice nell’Ottocento.

San Saverio, studente a Parigi conobbe Sant’Ignazio di Loyola e fece parte del nucleo di fondazione della Compagnia di Gesù. E’ il più grande missionario dell’epoca moderna. Portò il Vangelo a contatto con le grandi culture orientali, adattandolo con sapiente senso apostolico all’indole delle varie popolazioni. Nei suoi viaggi missionari toccò l’India, il Giappone, e morì mentre si accingeva a diffondere il messaggio di Cristo nell’immenso continente cinese. Il santo missionario San Francesco Saverio ( 1506-1552) sostò anche nella nostra città per un periodo di penitenza prima di partire per le missioni.


PROGRAMMA DEL CONVEGNO

Apertura dei lavori, Presiede mons. Alberto Peloso

Presentazione del Convegno, Giovanni Belluco, Assessore alla cultura

I N T E R V E N T I

Monselice e la scelta penitenziale di Francesco Xavier e Alfonso Salmeron, prof. Roberto Valandro

Il senso missionario della vita di s. Francesco Saverio, Giuseppe Pirola sj

L’impegno pastorale di  mons. Carlo Liviero, fondatore delle suore « Piccole Ancelle del Sacro Cuore », Fabio Longo ofm

Appendice

Emissione di due francobolli in occasione dell’anno Saveriano, Antonio Ruspi

 

 

Processione per san Francesco Saverio

 

APERTURA  DEL  CONVEGNO

Oggi ricordiamo s. Francesco Saverio, uno dei patroni delle Missioni, che ha detto sì al Padre, il Padre nostro, il Padre di tutti ed è per questo che ha sentito un’ulteriore vocazione: la prima è stata quella di seguire sant’Ignazio; la seconda è stata appunto quella di portare a tutti il Padre nostro. E’ stato uno dei primi grandi missionari arrivando fino in India e oltre, spendendo tutta la propria vita e morendo molto giovane. Oggi siamo qui per ricordarlo in occasione non solo dei cinquecento anni dalla sua nascita ma anche per il fatto che la locale l’associazione filatelica presenta due francobolli dedicati all’evento dalle poste italiane. Quest’incontro è maturata assieme all’assessore Giovanni Belluco e  l’abbiamo proposta perché s. Francesco Saverio si è fermato proprio qui a Monselice.

Tanti monselicensi considerano la statua che si trova al culmine dell’Esedra essere di s. Francesco Saverio, ma la verità è che l’Esedra, quando è stata edificata alla metà inoltrata del ‘600, venne dedicata a s. Francesco d’Assisi. Voglio anche ricordare in proposito che nella chiesa di S. Paolo c’era un ritratto a fresco di s. Francesco che è fra i più antichi, dipinto probabilmente attorno alla metà del duecento in base ai ricordi vivi di chi l’aveva visto.

Al tema specifico è stato aggiunto, e ne parlerà alla fine padre Fabio Longo, un ricordo della figura estremamente interessante di monsignor Liviero perché di genitori monselicensi, avviato al sacerdozio e alla sua missione pastorale da un altro prete conterraneo, don Basilio Mingardo. Il tema della missionarietà di s. Francesco Saverio verrà invece trattato da padre Giuseppe Pirola, docente all’istituto filosofico “Aloisianum” di Padova, subito dopo l’intervento del professor Roberto Valandro sul rapporto tra Monselice e la scelta penitenziale di Francesco Saverio. [ mons. Alberto Peloso  Arciprete del Duomo di Monselice]


PRESENTAZIONE  DEL  CONVEGNO

In primo luogo vorrei ringraziare mons. Alberto Peloso che ha accolto con grande entusiasmo l’idea di questa giornata, nata soprattutto perché questo è l’anno saveriano e noi, come rappresentanti della città, non potevamo sottrarci dal trattare la figura di un santo che ha calpestato il suolo monselicense. Inoltre ringrazio la disponibilità dei relatori: da padre Pirola a padre Fabio  con il professor Roberto Valandro, che si sono prodigati e hanno subito accettato di partecipare a questa tavola rotonda.

Francesco Saverio e mons. Carlo Liviero hanno sicuramente incontrato, tra l’altro, l’autentica spiritualità monselicense, ricavandone gli stimoli per maturare un grandioso percorso missionario, realizzato con grande coraggio senza paragoni. Essi possono essere considerati anche due personaggi contemporanei, perché portatori di ideali moderni, come testimoniano le opere compiute e il seguito di fedeli che ancora hanno in mezzo a noi.

La loro adesione agli ideali missionari e simile a quella del nostro Signore. Nel  vangelo di Luca, ma anche quello di Marco e Matteo, si racconta come, nell’orto degli ulivi, Gesù disse “sì” a Dio pronunciando la frase: «Sia fatta la sua volontà». Analogamente i nostri missionari, aderirono con entusiasmo alla loro missione terrena,  consapevoli delle responsabilità e dei percoli che dovevano affrontare.

 A legare i nostri due personaggi è la purezza delle intenzioni, la devozione a Dio e la consapevolezza di rappresentare il legante stesso tra uomo e Dio. Dal primo sì pronunciato da Maria all’Angelo al sì di Francesco Saverio detto all’amico Ignazio de Loyola, al Papa e al re del Portogallo; e al sì che disse monsignor Liviero quando decise di dedicarsi all’impegno pastorale.

Vogliamo per ciò ricordare la figura di s. Francesco Saverio nel 500^ della sua morte, ma anche per un altro motivo: la presenza del santo nella chiesa di S. Paolo a Monselice, l’edificio diventato ora museo che non deve far dimenticare a noi cristiani la storia della nostra terra. Siamo qui appunto per ricordare l’esperienza fondante che Francesco Saverio svolse in città, un percorso di preghiera e penitenza nella più rigorosa povertà e nel più dolce abbandono a Dio.

Importante per noi è ricordare inoltre la straordinaria figura di Carlo Liviero, fondatore delle Piccole Ancelle del Sacro Cuore: lo faremo con l’aiuto di padre Fabio Longo, vicepostulatore per le cause dei venturi santi francescani. [  Giovanni Belluco Assessore alla Cultura ]


MONSELICE E LA SCELTA PENITENZIALE DI  FRANCESCO  XAVIER  E  ALFONSO  SALMERON

 Roberto Valandro

Comincerò ora un breve viaggio nella storia di Monselice legandomi all’occasione di cui oggi si parla. Monselice è un luogo strano, che attira l’attenzione da lontano grazie al suo colle più piccolo, la Rocca. E’ un luogo particolare anche per gli abitanti, che hanno imparato a riconoscerlo grazie alla manifestazione della Giostra della Rocca, rendendo possibile un coinvolgimento totale della gente riguardo alla storia della città; ma è un luogo curioso e significativo anche per chi studia la sua storia.

Come è già stato ricordato poco fa, San Paolo diventerà il museo cittadino per eccellenza, perché abbiamo già delle realtà museali importanti, ma non un museo che ricordi la storia antica della nostra terra. Anche gli archeologi che hanno lavorato allo scavo di San Paolo si sono complimentati durante l’inaugurazione del complesso  ritenendo che Monselice meriti tale struttura. Essi parlano anzi di un museo diffuso, ossia una realtà da cui emergono tessere storiche estremamente significative come quella che ci ricorda la presenza di s. Francesco Saverio.

La Rocca è uno spazio sacralizzato da più di un millennio per la presenza numerosa di chiese, alcune tuttora esistenti ed altre scomparse a causa dell’escavazione di trachite. Abbiamo testimonianze cultuali di santi che si spingono agli esordi del Cristianesimo, come ad esempio s. Giorgio, s. Paolo stesso, s. Pietro, s. Tommaso e santa Giustina.

Nei primi anni del duecento abbiamo documentazione scritta del culto popolare per per s. Sabino, non sappiamo fino a che punto storicamente verificabile, come era accaduto per la settima chiesetta di San Giorgio, il santuario ricostruito su un’antica cappella medievale dove la popolazione accorreva per onorare i presunti resti corporali del santo accanto alla lancia che molti sostenevano essere quella usata per trafiggere il drago della leggenda.

Nella cripta di San Paolo conservavamo anche le contese reliquie di s. Savino, un santo piuttosto misterioso, che rinvia al mondo bizantino e longobardo, arretrando così verso i secoli in cui il cristianesimo si è qui radicato.

Oggi godiamo pure del monumentale Santuario dei Santi, significativo dal punto di vista storico  per la vita religiosa del passato e del presente, poichè in esso sono presenti reliquie vere, i corpi estratti dalle catacombe (risalenti al IV-V sec.) restituiti alla pietà dei fedeli. Nel settecento erano onorati come martiri, anche se nella moderna visione storica non possono essere considerati tutti come tali. Quindi non ci dobbiamo meravigliare se a Monselice ha attecchito anche il culto di s. Francesco Saverio. Monselice era una città importante nel medioevo fino all’età veneziana, ricca di fermenti, di presenze e situazioni per cui anche la venuta di Francesco Xavier, poi diventato santo, era in qualche modo plausibile.

Tuttavia le tracce del culto non si riferiscono tanto all’Esedra di San Francesco, ma hanno le loro radici nell’ottocento. Proprio agli inizi di questo secolo abbiamo una testimonianza d’archivio in cui si dice che il vescovo padovano Dondi Dall’Orologio nel 1815 concede particolari privilegi per la festa del Saverio: si parla di decenza d’apparati, dei lumi del Santissimo Sacramento e di nove giorni preparatori. Nel 1817 abbiamo invece un decreto emanato da papa Pio VII il 15 ottobre in risposta alla supplica che veniva dai monselicensi per poter istituire una Pia Unione dedicata al culto di s. Francesco Saverio.

Quando ho cominciato a ricostruire l’itinerario della santoralità monseliciana partendo da s. Savino, mi sono interessato anche di questo aspetto particolare e ho cercato di approfondire la presenza di Francesco Saverio a Monselice, leggendo le biografie  che ho potuto reperire quelle del Bartoli e del Maffei in particolare, con pagine che raccontano la permanenza di Francesco e gli antefatti che si possono così brevemente riassumere

Il capostipite dei gesuiti è sant’Ignazio di Loyola, un soldato che fonda l’ordine gesuita per combattere le eresie e per compiere opere missionarie. Dopo la conversione, una delle prime tappe della sua esperienza religiosa è Gerusalemme, raggiunta partendo da Venezia, allora la città più a contatto con l’Oriente. Tornato da Gerusalemme, comincia un suo calcolato itinerario alla ricerca di compagni e trova a Parigi un gruppo di giovani universitari tra cui Francesco Saverio.

A Venezia ripropongono, attraverso Ignazio, il loro viaggio in Palestina; nel frattempo vanno e vengono da Roma per ottenere la consacrazione sacerdotale. Da quel momento inizia la loro esperienza di penitenza e meditazione nei luoghi indicati dagli amici veneziani e tra questi c’è proprio Monselice. Qui giungono Salmeron e Saverio. Riporto qualche riga del biografo Maffei per poterci calare meglio nell’atmosfera di quel periodo «..avanti di offerire il primo sacrificio volle Francesco ritirarsi in qualche luogo solitario per meglio disporsi alle spirituali sue nozze e scelse a questo suo fine Monselice, terra poco lontana da Padova, nascondendosi dentro un povero e abbandonato  tugurio, aperto da ogni parte agli insulti de’ venti mal riparato dalle piogge e dagl’ardori del sole …». È una prosa un po’ sovrabbondante, però di grotta non si parla. «..il suo letto era un mucchio di strame, il suo vitto null’altro che semplice acqua e pochi pezzi di pane che egli andava elemosinando nei dintorni … teneva sempre sulle carni un pungente cilicio, si flagellava fieramente fino allo spargimento del sangue e si crucciava in altre fogge più austere… »; infine si parla della predicazione che Saverio comincia a fare e il biografo dice che la sua foga oratoria era così convincente da riuscire ad attrarre la popolazione che andava volentieri ad ascoltarlo.

Parlare di cilici e di fustigazioni nella realtà in cui viviamo credo sia difficile da  concepire; però bisogna capire anche i tempi, la mentalità e la fisicità tremenda con cui si incontravano i nostri protagonisti: la gente viveva abbandonata in mezzo alle pestilenze o ricoverata negli ospizi ove praticavano la carità personaggi come Ignazio e Saverio, percorrendo una specie di tour alla rovescia, un giro dentro questa umanità sofferente e disgraziata. Numerosi episodi di contatti con lebbrosi e appestati sono documentati infatti pure a  Vicenza.

Dopo queste esperienze Francesco parte e va dove ci dirà  poi padre Giuseppe Pirola. Mi sono chiesto piuttosto il motivo per cui gli amici veneziani hanno suggerito Monselice per questa sua esperienza educante. Sarebbe interessante sapere quali altri luoghi erano stati scelti dai veneziani per fare un confronto e scoprire i criteri che hanno indotto a indicare proprio la nostra città. Ho fatto delle ipotesi, riferendomi alle date in possesso, volendo evitare equivoci come quelli nati intorno alla grotta.

Siamo ai primi del cinquecento, periodo in cui si assiste all’assalto di Venezia da parte di tutte le potenze europee, Papa compreso. La Serenissima dava fastidio per la sua volontà d’espansione, ma resiste alle aggressioni. Monselice stessa è attaccata per anni con assedi, distruzioni e saccheggi e nell’ultimo assalto del 1513 viene probabilmente bruciato l’archivio comunale, perdendo così la stragrande maggioranza della documentazione scritta sul passato municipale.

Nel frattempo nascono altre realtà stimolanti nel nostro spazio, contrapposte alle disgrazie e alle sofferenze, che credo abbiano influito nella scelta dei futuri missionari.

Alla fine del quattrocento, per esempio, era stata costruita nella chiesa francescana di S. Maria una cappella molto bella, dedicata alla Madonna Immacolata ricordata dalla sensibilità popolare come Madonna della Saetta per aver protetto il convento da un fulmine. Specifica che tale cappella non venne realizzata nell’attuale S. Giacomo, ma nella primitiva chiesa francescana in seguito distrutta e il cui ricordo è conservato da un monastero di suore di clausura in via S. Biagio, poco discosto dall’omonima biblioteca pubblica.

Nello stesso periodo è onorata in quanto miracolosa una statua della Madonna che darà il nome alla chiesetta dei Carmini, tuttora esistente e poco utilizzata per problemi di acustica; ma un altro fatto ha attirato la mia attenzione e risale al 1526,  qualche anno prima dell’arrivo qui da noi di s. Francesco Saverio e di Salmeron. L’evento si rifà all’apparizione un Venerdì santo della Madonna a due pastori, sventando una rissa con probabile omicidio in una località appartata di Baone, un luogo campestre ai confini del nostro territorio. Nasceva così un santuario campestre che faceva accorrere molta gente. Questo avvenimento venne addirittura pubblicizzato attraverso un volantino che ho avuto modo di scovare all’interno dei “Diari” manoscritti di Marin Sanudo, un’opera monumentale in cui l’autore aveva raccolto questo foglietto volante con una xilografia rappresentante la scena dell’apparizione e un breve cenno al miracoloso evento.

Questa dunque l’atmosfera di quegli anni: da una parte la morte e la distruzione, dall’altra la ricerca di aiuti celesti attraverso l’adorazione delle “varie” Madonne.

 Ritornando alle vicende di Saverio e Salmeron, proviamo a capire il motivo per cui è nata la storia della grotta di S. Francesco a lui dedicata. I documenti parlano chiaro.  I Duodo, tra la fine del  cinquecento e l’inizio del seicento, hanno costruito le Sette Chiese con San Giorgio, ma queste non erano ancora Santuario, anche se le  speciali indulgenze concesse le accomunavano alle basiliche romane meta di pellegrinaggi fin dai primi secoli dell’era cristiana.

Bisogna aspettare la metà del seicento perché arrivino i primi tre corpi “santi”, ossia resti catacombali dei primi cristiani, ed è alla fine del settecento che avviene l’inaugurazione del Santuario come lo vediamo oggi, sistemando nella seconda cappella una specie di emiciclo catacombale.

Il costruttore dell’Esedra ha voluto in realtà onorare un suo antenato che si chiamava Francesco dedicandola a Francesco d’Assisi; quale prova abbiamo i documenti di un biografo olandese trasferitosi in Italia, incaricato dai Duodo di scrivere la storia della loro famiglia. Nel manoscritto, conservato nella biblioteca Correr di Venezia, l’autore, avendo a disposizione l’archivio familiare, scrive che Aloisi Duodo attorno alla seconda metà del seicento fece costruire l’Esedra in onore dell’antenato dedicandola senza alcun dubbio a s. Francesco d’Assisi. Vedremo in seguito perché la storia ha inserito anche s. Francesco Saverio.

A questo punto entra in gioco un altro storico importante, Gaetano Cognolato, il quale scrisse la prima storia di Monselice trattando solamente il periodo che va dal medioevo all’età veneziana e in cui narra la storia del santuario dei Santi. Il volume venne pubblicato alla fine del settecento in occasione dell’inaugurazione del santuario. Cognolato ribadisce il fatto che l’Esedra è dedicata a s. Francesco d’Assisi e ne abbiamo ulteriori prove poiché fino ai primi del novecento qui si otteneva il Perdon d’Assisi; poi, visto che veniva lucrato pure nella chiesa francescana di  S. Giacomo, per un’ordinanza papale il provvedimento venne sospeso.

La grotta è stata dunque costruita nel seicento; vi si accedeva facendo un giro al suo interno e  la gente pellegrinante non tralasciava di entrarvi per pregare; ad un certo punto la confraternita della Pia Unione di cui si è parlato avrà pensato di sistemare nella grotta di S. Francesco anche un s. Francesco Saverio.

Abbiamo infatti la testimonianza di Celso Carturan, lo storico che ha lavorato alla storia di Monselice fino alla metà del novecento; secondo lui la leggenda della presenza di Francesco Saverio nella grotta è nata dal fatto che in essa vi era stato collocato il suo busto, in modo tale che la gente in pellegrinaggio potesse onorarlo accanto alla Madonna e a s. Francesco d’Assisi. Questa è dunque la storia documentata; poi nella sensibilità popolare, chissà perché, è diventata la grotta di s. Francesco Saverio. La gente infatti tende a trascurare la verità storica per creare un proprio itinerario conoscitivo e come mi raccontava un vecchio, dopo la fine della seconda guerra mondiale, qualcuno ha rivestito la statua denudata di s. Francesco d’Assisi con una veste nera rassomigliante a quella dei  gesuiti, quasi a confermare la diceria nata da un semplice equivoco, per cui non bisogna scandalizzarsi se accanto al documento ha operato e opera l’invenzione folclorica.

Per ricostruire la storia reale dobbiamo quindi tenere conto di ogni piccola traccia, senza timore di offendere chicchessia, perché credo proprio che s. Francesco Saverio non avesse affatto bisogno di vedersi intitolare una grotta per lasciare qui a Monselice una traccia davvero feconda in sua memoria.

 

La nicchia di San Saverio a Villa Duodo

 


IL  SENSO  MISSIONARIO  DELLA  VITA DI  S. FRANCESCO  SAVERIO

Giuseppe Pirola sj

Il Saverio a Monselice: itineranza non pellegrinaggio

Dalla relazione precedente del prof. Roberto Valandro risulta che il S. Francesco dell’esedra è quello d’Assisi; aggiungo a conferma un’osservazione pertinente all’iconografia gesuitica. La Compagnia di Gesù non ha nessun abito stabilito dalle Costituzioni dell’ordine; il gesuita non è facilmente identificabile dall’abito. Le Costituzioni dicono solo di vestire secondo l’abito degli onesti sacerdoti del luogo.. se ve ne sono, come accadde ai primi gesuiti che andarono in Giappone e Cina. Francesco Saverio poi quando venne a Monselice, non aveva nessuna veste, perché i primi dieci compagni vestivano alla maniera degli universitari di Parigi, che erano . divisi per collegi e avevano un abito di diverso colore, in modo tale da poter essere riconosciuti dalla polizia.

Anche per quanto riguarda le penitenze, la Compagnia di Gesù ha deciso di escludere dalle proprie regole quelle di tipo fisico. Di fatto l’esclusione non fu osservata in tutte le nazioni per cui troviamo l’uso di qualche piccolo strumento di penitenza (ad esempio quello dei flagellanti); ma la penitenza fisica non fa parte della spiritualità della Compagnia. Dico ciò per riallacciarmi alla icona di Francesco Saverio. E veniamo al tema: perché Francesco è venuto a Monselice? Che cosa faceva a Monselice? Era qui in attesa di andare in Palestina con Ignazio e compagni, i primi dieci gesuiti. Nell’attesa avviene l’ordinazione sacerdotale di Ignazio a Venezia; ma Ignazio ha lasciato trascorrere più di un anno tra l’ordinazione sacerdotale a Venezia e la celebrazione della prima messa a Roma. Non avveniva come ai nostri giorni, in cui il passaggio dalla consacrazione da parte del vescovo ai festeggiamenti in parrocchia è immediato. Attualmente si stanno reintroducendo delle preparazioni, come il mese di preghiera, esercizio con cui ci si preparava ad assumere il sacerdozio come servizio al Regno di Dio poiché nessuno è sacerdote per il bene suo personale. Ma che faceva Francesco a Monselice, nell’attesa di passare in Palestina? Che rapporto c’è tra il Francesco a Monselice e il missionario delle Indie?

Francesco Saverio in India praticò il servizio al Regno di Dio in una modalità missionaria specifica, come vedremo: l’itineranza. Per capire questo punto dobbiamo liberarci da un equivoco risolto recentemente dal padre Michel de Certeau nell’introduzione al “Memoriale del beato Pietro Favre”, uno dei compagni di s. Francesco Saverio, per capire che cosa faceva il Saverio a Monselice,

Gli storici hanno confuso l’itineranza, chiamata peregrinazione, con il pellegrinaggio; ma peregrinazione e pellegrinaggio sono cose completamente diverse. La peregrinazione non è un pellegrinaggio, come erroneamente si è pensato; è invece imitare lo stile di vita della predicazione e annuncio del Regno di Dio, scelto e praticato da Gesù Cristo in Palestina ai suoi tempi. Come diceva Cristo:” le volpi hanno le loro tane, gli uccelli del cielo hanno il loro nido, ma il figlio dell’ uomo non ha dove posare il capo”. Gesù viveva in strada e predicava per strada. Sant’Ignazio scelse questo suo modello di vita apostolica, subito dopo la sua conversione. Egli non fu mai pellegrino bensì peregrino o itinerante apostolico. Traduco questa parola “peregrino”, con il significato di itineranza apostolica datogli dai francescani, (vedi il vangelo di S. Matteo c.10): esercitare il ministero apostolico andando in giro per strada.

Francesco Saverio insieme a sant’Ignazio qui in Veneto praticavano l’itineranza apostolica; vivevano da poveri mendicando il pane e facendo apostolato, cioè aiutando le anime che occasionalmente incontravano. Questo è il primo momento della vita di sant’Ignazio e dei suoi compagni, Saverio compreso. Non avevano ancora capito qual’era la vera vocazione missionaria della Compagnia di Gesù, come vedremo. Inizialmente essi volevano solo seguire Gesù Cristo, imitarne la vita e lo stile di itineranza missionaria, alla lettera; e volevano quindi per imitare meglio Gesù Cristo, andare in Palestina non per fare un pellegrinaggio, ma per restarvi e fare apostolato con lo stile di Gesù Cristo in Palestina, imitando ancor più alla lettera Gesù Cristo, operando e vivendo negli stessi luoghi ove Cristo aveva vissuto e operato: annunciare il Regno di Dio in Palestina.

Durante la permanenza di Ignazio e di Francesco Saverio qui a Monselice, divenne invece chiaro a Ignazio e ai suoi, impossibilitati di andare in Palestina a causa della guerra tra Venezia e i turchi, che la vera imitazione di Cristo per i gesuiti non era quella di andare in Palestina a svolgere il loro servizio al regno di Dio da itineranti su quel territorio, ma di raggiungere Roma dove si trovava il papa, vero capo della missione del Regno di Dio, e di mettersi a sua disposizione per un’itineranza apostolica mondiale. Questo momento non è di importanza secondaria, ma decisiva nella vita dell’Ordine; nella vita spirituale di questi dieci compagni avvenne questa comprensione non più letterale ma sostanziale dell’itineranza di Cristo, quale fosse cioè la vera itineranza apostolica cui il Signore chiamava la Compagnia di Gesù. Il Veneto e Monselice è il luogo della definitiva comprensione della vocazione apostolica della Compagnia di Gesù.

 

La vocazione missionaria del Saverio

Quando si parla della missione della Compagnia di Gesù nel 1500, bisogna partire dai dati di fatto che sono già presenti e assunti nel testo ignaziano degli Esercizi Spirituali. Faccio appello a questo testo, perché Francesco Saverio senza mai aver letto le Costituzioni scritte da Ignazio, dopo che egli era già in India e Giappone, è diventato missionario. Quindi egli era gesuita non secondo le Costituzioni ma secondo gli Esercizi Spirituali.

Dobbiamo tenere presente questa fonte della vita missionaria di Francesco, per capire la storia della Compagnia di Gesù. In questi stessi anni l’Europa si apre verso il mondo intero in seguito alle prime scoperte geografiche e avviene la Riforma luterana. I protagonisti dell’esplorazione delle nuove terre furono militari, mercanti e missionari. Mi soffermo su questo terzo gruppo, che non rappresentava né il potere economico né quello politico, ma viveva a contatto con la popolazione di cui condivideva la vita, e operava in base a un idea o progetto di missione apostolica, l’itineranza a servizio del regno di Dio. Questa idea è la stessa per s. Francesco Saverio, missionario in India, per gli altri gesuiti inviati in America Latina e per il beato Pietro Favre inviato da Ignazio in Germania dove c’era la Riforma. Alla base di questo progetto di missione legato agli avvenimenti storici del tempo, sta il cosiddetto discernimento spirituale dei segni dei tempi. Esso consiste nel fare attenzione alle novità emergenti storicamente, perché è attraverso l’analisi dei fatti umani interpretati alla luce del vangelo, che lo Spirito santo manifesta quale sia la missione apostolica da intraprendere nel contesto storico in cui si vive. I fatti, e cioè nel nostro caso, la riforma luterana, le scoperte geografiche all’est e all’ovest, sono segni, fatti significanti la missione cui lo Spirito santo, facendo sentire interiormente la sua voce, chiama la sua Chiesa e indica l’opera da compiere in un momento storico determinato. Rimane fermo che la missione della Chiesa è continuare l’opera di Cristo per la salvezza degli uomini, o, meglio, per la liberazione di tutti gli uomini dal peccato e dalla morte. Questo è l’aspetto invariabile della missione della Chiesa; ma questo aspetto invariabile non basta da solo e deve tenere conto dei differenti e variabili contesti storici del mondo umano, per liberarlo e trasformarlo nel senso ultimo e definitivo della storia umana stessa che è il Regno di Dio.

Francesco Saverio ha appreso il senso e la pratica del discernimento spirituale, facendo gli esercizi spirituali di Ignazio, attraverso i seguenti passi.

Nella meditazione del Regno di Dio, nozione centrale del Vangelo o dell’annuncio di Cristo, Francesco si rende disponibile a seguire il Cristo e a condividere per tutta la sua vita la missione di Cristo.

Nella contemplazione sull’Incarnazione egli apprende come Dio vede gli uomini che sono nel mondo, e cioè il mondo nella sua totalità divenuta nota con le scoperte geografiche; la Trinità guarda il mondo e vede che gli uomini vivono da peccatori, perdendo la vita temporale e quella eterna. Lo sguardo trinitario è lucido circa la condizione miserabile degli uomini; ma la loro condizione doppiamente miserabile suscita l’amore per loro della Trinità, che decide non di giudicarli e condannarli ma di liberarli dal peccato e dalla morte. Decide quindi che la seconda persona della Trinità, il Figlio si incarni, cioè venga a condividere la condizione umana, tranne il peccato, e con l’annuncio dell’angelo propone a Maria di essere la madre di Cristo, proposta che liberamente la Madonna fa sua.

Si può a questo punto capire qual è la missione fondamentale della Chiesa che è stata la scelta di vita di Francesco e dei suoi compagni, e la sua motivazione: non condannare ma amare gli uomini fino alla fine. Questa è ciò che i gesuiti chiamano obbedienza apostolica perinde ac cadaver o senza opporre resistenza alcuna come un cadavere (da non confondere con quella canonica alla legittima autorità ecclesiastica): il condividere l’amore che il Padre ha per tutti gli uomini anche a costo della vita. Su questa base possiamo interpretare la figura di s. Francesco Saverio e ciò che ha fatto in tutta la sua vita.

L’attività missionaria del Saverio

Per amore verso gli uomini ispirato dalla Trinità e attinto a preghiera profonda e costante, egli partì verso il nuovo mondo; esplorò il territorio dell’India diffondendo l’annuncio del Regno di Dio dando testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini miserabili come i poveri pescatori di perle, analfabeti e esposti alle violenze del potere di tutti, dei villaggi marittimi del Sud dell’India. Insegnava loro la professione di fede o Credo, i dieci comandamenti; poi amministrava il battesimo, e insegnava a pregare dando così inizio a comunità cristiane. Inviava poi lettere a Roma informando il papa, Ignazio e i suoi compagni, su come dovevano essere preparati quelli che gli sarebbero poi succeduti nel territorio della missione. Chiedeva di fondare collegi contro l’analfabetismo, seminari per la formazione del clero indigeno, in modo da affidare ai nuovi cristiani le loro comunità cristiane. Saverio si occupò criticamente, attraverso colloqui, della religione indiana o induismo; egli informò anche Roma che la religione indiana era divisa in due livelli, un livello di religione popolare, idolatra e superstizioso, diffuso e diretto da bramini che vivevano con il popolo, e un livello segreto di religione monoteistica e vita ascetica, creduto e praticato da altri Bramini (monaci eremiti o in monasteri), e ritenuto dai bramini il vero induismo. .

Anche in Giappone Francesco Saverio, scopre le due dimensioni del buddismo: buddismo popolare e buddismo di monaci dediti a una vita ascetica severa nei monasteri, non priva di vizi come l’omosessualità ma in altre, noi diremmo scuole, ricca di esperienze spirituali ( “ il modo di sentire Dio”, un Dio solo per tutti gli uomini). Quanto ai rapporti con il potere politico: se in India scriveva al re di Portogallo, chiedendo aiuti, fece anche, noi diremmo l’obiettore di coscienza, facendo appello alla coscienza del re e al giudizio di Dio per le ingiustizie commesse dai portoghesi contro gli indiani, di cui lo riteneva responsabile; In Giappone, paese politicamente indipendente, muta la sua azione. Si reca prima dall’imperatore giapponese ma si rende conto che il suo potere è puramente di rappresentanza; poi va dai Daimio locali cioè da chi effettivamente esercitava il potere. Ai Daimio chiede per se la libertà di predicare e per i sudditi la libertà di convertirsi.

In Giappone egli battezza pochissimo, cambiando radicalmente il suo agire apostolico rispetto all’India. Anziché analfabeti, trova una nazione altamente alfabetizzata e colta al paragone dell’India. Nota i valori morali del popolo giapponese. E poiché, come dice, i giapponesi amavano molto discutere con la ragione, durante i suoi viaggi, affronta numerose discussioni con la popolazione e i monaci su temi religiosi controversi. Un’obiezione che gli è stata fatta è spiegare il motivo per cui il Dio di una religione universale come il cristianesimo, è arrivato così tardi in mezzo agli uomini, visto che Francesco tanto esaltava l’amore del suo Dio per gli uomini. Un altro oggetto di discussione, fu quella di come potevano conoscere il destino dei loro antenati, visto che i cristiani non concepivano come i giapponesi l’idea della reincarnazione dei defunti.

 Conclusione

Tenendo conto di quanto finora è stato detto si può capire perché s. Francesco Saverio è ritenuto il fondatore di una nuova idea di missione: perché in forza del discernimento storico-spirituale cercò di rendersi conto delle differenze tra religioni quali induismo, buddismo, e cristianesimo, dei valori umani propri di ogni paese, volendo liberare gli uomini dal peccato, ma solo da ciò che ovunque è peccato, ma non delle differenze di valori tra popoli e religioni di cultura diversa. Non era a favore della missione cristiana che si proponesse l’omogeneizzazione di tutte le culture e religioni, abolendo le differenze; egli propugnava l’«unità nella diversità» di religioni e culture, uno sviluppo polimorfico della Chiesa. Questo è il senso della missione di s. Francesco che ha attinto agli esercizi spirituali: Regno di Dio, contemplazione della Incarnazione. Egli riteneva che il compito del missionario fosse quello di amare gli uomini nella loro miseria, come la Trinità, come il Cristo, per liberarli dalla loro miseria, vivendo e condividendo la loro vita; e non quello di giudicare e condannare gli uomini. Ma per poter fare questo occorre lo Spirito Santo e la capacità di discernerlo nel presente e di seguirlo, a condizione di aver conseguito interiormente la libertà spirituale. il prendere decisioni libere da dipendenze affettive, e di essere disposti al magis, quel disegno più grande di noi in ogni presente storico che è la volontà del Padre che lo Spirito significa e comunica attraverso i fatti della storia umana e del loro senso per la vera libertà degli uomini

 

Processione per san Francesco Saverio

 


L’IMPEGNO PASTORALE  DI  MONS.  CARLO LIVIERO FONDATORE  DELLE  SUORE  “PICCOLE ANCELLE

 DEL  SACRO  CUORE” 1866 – 1932 [Fabio Longo ofm]

Perché parlare di mons. Carlo Liviero in questa “tavola rotonda”? Perché cittadino, e tra i più illustri, di Monselice. Il 15 giugno 1865 nella chiesa di S. Tommaso si sposano i genitori di Carlo. Il padre, Paolo, nato a Lobia VI il 28 maggio 1833, castaldo dei nobili veneziani Balbi Valier, nella villa Duodo: “figlio d’un bovaro, cantoniere”, si presenterà mons. Liviero nel discorso d’ingresso a Città di Castello nel 1910, diocesi affidata alle sue cure pastorali da Pio X. Tra gli antenati Antonia Liviero, sposa di Angelo Sarto originario di Este, bisnonna di san Pio X (cfr. G. Romanato, S. Pio X: un papa e il suo tempo, ediz. Paoline 1987, p. 14).

La madre Gaetana Gialain di Monselice, giovane tessitrice, vive in una casetta nei pressi della villa Duodo. Appena sposo Paolo ottiene il posto di casellante-cantoniere nelle ferrovie a Vicenza, dove nasce Carlo, il primogenito, il 29 maggio 1866, ore 16, battezzato il giorno successivo nella chiesa di S. Pietro Apostolo. Due anni dopo, il padre è trasferito nel casello ferroviario di Battaglia Terme, infine nel 1870 a Monselice, in località Isola di Marendole, n° 4, con l’abitazione nel casello ferroviario Padova-Rovigo, dove nascono gli altri tre figli: Ernesta 1871, Elisa 1876, Giuseppe 1877. Ernesta, maestra elementare, vivrà sempre con il fratello Carlo, insegnante nelle scuole pubbliche di Gallio e di Agna, poi a Città di Castello nella scuola elementare aperta dal fratello vescovo Carlo in episcopio. Giuseppe, l’ultimo, sarà sacerdote nel 1900, parroco dal 1908 di Arzarello, nel 1931 canonico a Città di Castello, ove muore il 14 gennaio 1935.

A Monselice Carlo vive o fa riferimento un terzo della sua esistenza: qui l’abitazione, la sua prima fondamentale formazione umana e cristiana, bene armonizzate tra loro con l’aiuto della famiglia, profondamente religiosa e onesta, della parrocchia, dove sente l’attrazione verso l’altare e il ministero sacerdotale, della scuola che frequenta nelle classi elementari e ginnasiali. Qui sboccia la sua vocazione-passione al sacerdozio, senza esitazioni o aspetti problematici, se non la mancanza di mezzi economici per entrare in seminario, problema che affronterà, come in seguito ogni altra difficoltà, con spirito combattivo: “il problema esiste per essere risolto” (non insabbiato): la Provvidenza agirà attraverso il monselicense don Basilio Mingardo in due momenti determinanti per Carlo: la possibilità di entrare e rimanere in seminario, la possibilità di anticipare l’ordinazione sacerdotale di 22 mesi con dispensa sui tempi canonici previsti. La risposta di Carlo sarà perenne riconoscenza e grande stima.

Ogni mattina il piccolo Carlo si reca alla chiesa parrocchiale di S. Paolo per ascoltare la s. Messa con la mamma, chiesa nella quale a 6 anni gli viene amministrata la cresima, in seguito la prima Comunione, e presta il suo servizio liturgico da chierichetto. Qui il 3 dicembre 1888 canterà la sua prima Messa, 4 giorni dopo la sua ordinazione sacerdotale. Tiene il discorso don Basilio Mingardo. Da Monselice partirà per il seminario di Padova, ambiente ricco di cultura umanistica e teologica, dove Carlo, in sette anni (1881-1888), completa e approfondisce la sua formazione spirituale e culturale, seminario 30 anni prima frequentato, per gli stessi motivi, dal giovane Giuseppe Sarto, il futuro Pio X e santo, entrambi accomunati dall’ideale di essere “pastori secondo il cuore di Dio” (Ger 3,15).

Quanto brevemente premesso permette di capire che l’azione socio-pastorale di mons. Carlo Liviero, così intensa e a tutto campo, non si potrebbe spiegare senza la componente spirituale e la sua grande sensibilità umana. C’entrano sempre la fede e l’amore in tutte le sue opere (tutte intitolate al sacro Cuore di Gesù), sia a Gallio (1889-1899): “il paese quantunque pieno di partiti mi ama sinceramente e mi fa il miglior tratto del mondo” (lettera a don Mingardo), sia ad Agna (1890-1910): “padre dei poveri”, “padre degli orfani” viene chiamato, e a Città di Castello (1910-1932): “mi troverete tutte le mattine in cattedrale per confessare e tutte le sere per predicare. Le vostre ansie, le vostre gioie, i vostri dolori saranno anche i miei. Avrete in me un padre che vi ama” (discorso d’ingresso). Gli risuonavano nell’animo le espressioni della Bibbia, la preferita dal giovane don Carlo tra le discipline teologiche): “La fede opera per mezzo della carità” (Gal 5,6), “Che giova fratelli miei, se uno dice di aver  la fede ma non ha le opere? La fede se non ha le opere, è morta in se stessa. Mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede”. E con questo spirito quante opere realizzò Liviero (molte hanno del prodigioso). Innanzitutto per il bene alle anime “quando si tratta di anime, mai dire basta!”; instancabile e ascoltata la sua predicazione e a chi sottolineava, nel giorno del suo ingresso in cattedrale: “che brutto il vescovo”, spiritosamente rispondeva: “non sono venuto per farmi vedere ma per farmi sentire”, e come si è fatto sentire, anche in ambienti dove non lo volevano sentire! Ma parallelamente anche per i bambini e gli anziani, i poveri, gli emigranti; per la cultura e la formazione; per gli operai e le istituzioni, a partire dalla famiglia. Fu il vero servo di tutti, perché, come insegna Madre Teresa di Calcutta: “ Se credi, amerai. Se ami, servirai”.

Il fatto sociale e il vangelo sono inscindibili”, affermò papa Benedetto XVI a Monaco di Baviera. In queste poche parole si trova espressa la sintesi dell’impegno pastorale di Liviero, sia da parroco che da vescovo.

Per capire la sua opera grandiosa, tutta tesa a salvaguardare la dignità umana dei suoi fedeli sull’altopiano asiaghese, nella bassa padana, o nell’umbra diocesi di Città di Castello, basti pensare che negli anni fine Ottocento inizi Novecento, anni di povertà o addirittura di miseria, in Italia l’emigrazione transoceanica raggiunse gli indici più alti. Soprattutto nel Sudamerica (cfr. Dagli Appennini alle Ande di Edmondo De Amicis, l’autore di “Cuore”, oppure Sull’Oceano, diario di bordo del viaggio per l’Argentina compiuto nel 1884, assieme a 1.600 emigranti, tra i quali 400 donne e bambini).

All’inizio erano i paesi di montagna a spopolarsi, in seguito anche quelli delle zone collinari e di pianura. A Città di Castello tra il 1906 e il 1907 emigrarono 2.365 persone. Il dato statistico spiega l’iniziativa del Liviero: l’istituzione della scuola serale di lingua inglese e francese per facilitare l’inserimento degli emigranti nei paesi ospitanti, transoceanici o europei.

L’impulso carismatico a capire e risolvere i problemi spiega, soprattutto, le molte iniziative prese allo scoppio della prima guerra mondiale o vivendo le tristi situazioni della popolazione in cui opera da parroco (Gallio, dove il giovane parroco è il pioniere delle opere sociali assistenziali e promozionali), Agna, o da vescovo a Città di Castello. Si rimane impressionati, quasi increduli se non sapessimo che in Carlo Liviero funzionavano a pieno regime cuore e cervello, sensibilità umana e intelligenza, visione chiara dei problemi e immediatezza nel risolverli:

  • società cattolica operaia agricola e cassa rurale per combattere l’usura, problema questo che affliggeva anche gli uomini del Quattrocento e che il b. Bernardino da Feltre ha tentato coraggiosamente di risolvere con la fondazione di molti Monti di Pietà, compreso quello di Monselice (1494, ultimo anno della sua vita), nell’attuale “Loggetta”
  • asilo infantile e ricovero per gli anziani (novità assoluta sull’altopiano di Asiago), società di mutuo soccorso, la cooperativa di consumo di generi alimentari per calmierare i prezzi, la lega fra gli operai cristiani, la scuola di lavoro per le giovinette (a proprie spese); nei locali dell’episcopio la scuola elementare per i ragazzi più poveri e moralmente più bisognosi della città e della diocesi. Mons. Liviero, infatti, sa per esperienza personale che, per i poveri, spesso unico sostegno sono gli uomini di Dio (per lui era stato mons. Basilio Mingardo). Questa scuola ha dato alla chiesa molti sacerdoti e religiosi, e anche un vescovo Pietro Fiordelli, poi vescovo di Prato. Dal 1966 la scuola ha sede presso la casa Madre delle Piccole Ancelle
  • a Città di Castello l’Opera del Sacro Cuore di Gesù (1915) per i figli derelitti dei combattenti (nel vecchio orto della cera), luogo di accoglienza gratuita (la gratuità era costume di vita per Liviero), idea umanamente pazzesca perché non esisteva la beneficenza, il dovere della solidarietà. E mons. Liviero devolve sistematicamente più della metà delle sue entrate di vescovo. “E per far camminare quest’opera caritativa si è fatto povero, mendicante, ridu-cendosi a una vita modestissima, per non dire meschina” (il suo segretario, mons. Piaggi). “Sarò io il loro padre! Il babbo di questi derelitti sarò io!”. Risposta immediata al grido dei bimbi accompagnati in Municipio dai padri, costretti a partire per la guerra. Cuore paterno che mette in moto il cervello e tutta la fiducia nella Provvidenza.
  • Fondazione delle Piccole Ancelle del Sacro Cuore (9 agosto 1915, lo stesso giorno in cui mons. Liviero accolse i primi 14 bambini, accuditi da due giovani Dina Mercati e Maddalena Bioli, le prime due Piccole Ancelle, allora chiamate Piccole serve del Sacro Cuore). Dieci anni dopo la Colonia marina Sacro Cuore di Pesaro per rafforzare la salute dei bambini più esposti alle malattie: “Non buttiamo i denari nel marmo (monumento ai caduti della guerra ‘15-’18) che resta freddo e muto, facciamo un monumento che irrobustisca e fortifichi i nostri figli nell’anima e nel corpo” (alle autorità civili di Città di Castello).
  • Unione piccoli lavoratori Italia Industrie, scuola di lavoro per artigianelli, per una solida formazione professionale; pensionato per studenti; libreria Sacro Cuore, tuttora esistente; Tipografia vescovile, trasformata anche in “scuola tipografica orfanelli Sacro Cuore”, per istruire i fanciulli in un mestiere, perché acquisissero una loro autonomia nella società. Stamperà anche una serie di testi di spiritualità per la casa editrice “La Fiorentina”, con la direzione di Giovanni Papini. Offrirà lavoro a molti giovani.

 

La particolare attenzione di mons. Liviero verso i bambini, i ragazzi, i giovani aveva una precisa finalità che coinvolgesse educatori e insegnanti: “Poco vale arricchire la mente di cognizioni, se queste non servissero a rendere migliore l’uomo. Fine della scuola non è solo di fare degli uomini colti, ma anche degli uomini onesti”.

Intuisce l’importanza della stampa cattolica da contrapporre a certa stampa faziosa. Neppure un mese dopo il suo ingresso in diocesi, dà vita al settimanale diocesano Voce del popolo, per una educazione integrale, che deve comprendere anche l’insegnamento della religione nelle scuole. Il settimanale sarà soppresso dai fascisti nel 1926.

Iniziative anche nel campo spirituale-pastorale, operando attraverso gruppi di fedeli selezionati e ben curati, paragonabili al pugno di lievito evangelico che fa fermentare la massa: il circolo delle giovani, le figlie di Maria, il gruppo S. Luigi per i giovani e quelle delle madri cristiane e degli uomini cattolici, le figlie di S. Angela Merici, il terz’Ordine francescano, la guardia d’onore al S. Cuore. Risultati: soltanto a Gallio, in dieci anni, 20 i giovani che scelsero la strada del sacerdozio, 25 le giovani che si consacrarono nella vita religiosa.

Un’azione dilagante, la sua, che ben presto si espande in ondate sempre più ampie a partire dalla casa madre: 1919 Selci PG, 1921 Pistrino PG, 1922 Passignano sul Trasimeno PG, 1923 Cona VE prima casa nel Veneto, 1924 Ostra-Ascoli Piceno, 1925 Pesaro “Colonia Marina S. Cuore” e Pozzonovo , 2 case nel 1926, tre nel 1927, compreso Pontecasale, 2 nel 1928 con S. Elena d’Este, 4 nel 1929, 3 nel 1930, tra cui Carpenedo PD, 2 nel 1931, 4 nel 1932 (anno della morte del fondatore), compreso Ospedaletto Euganeo. Tra il 1919 e il 1932, in tredici anni, 27 le case aperte. In anni più recenti, 3 anche qui a Monselice, ora soltanto due: quella di via Garibaldi e del SS. Redentore.

Un’azione incontenibile entro i confini d’Italia. Raggiunge le missioni in Kenya, Albania, Ecuador (2006), caratterizzata quest’ultima dall’apostolato itinerante: “non svolgiamo alcuna attività specifica, perché siamo qui per una pastorale di strada, fatta per ora di cammino, di incontri, di conoscenza. Soprattutto ci sentiamo chiamate a stare non tanto per i poveri, ma con i poveri, condividendo la loro condizione di vita semplice ed essenziale, facendo con loro il passo per prime, in un cammino di promozione umana, di riscatto della dignità della donna e della famiglia, di formazione dei giovani, di attenzione ai bambini” (in La voce del sacro Cuore, bollettino quadrimestrale dell’Opera di mons. Liviero, LXXXIII 2 (2006), p. 16).

Mons. Carlo Liviero fu davvero un testimone di Cristo risorto e portatore di speranza (tema del IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona 16-20 ottobre), a partire dall’evangelico “granellino di senapa” seminato nell’Orto della cera il 9 agosto 1915 per riparare e proteggere i primi 14 bambini, ora grandioso complesso edilizio “Casa Madre” delimitata da 4 vie cittadine: Del Pozzo, Trastevere, XI settembre, Pomerio S. Giacomo.

Impegno continuato dalle sue figlie, le Piccole Ancelle del Sacro Cuore con la Casa Fiducia di Pesaro (1996) per “affermare il valore della vita; aiutare la madre in difficoltà ad accogliere e portare a termine la gravidanza, far nascere e crescere in questa il desiderio di progettare responsabilmente la propria esistenza unita a quella del figlio”. Risposta cristiana e altamente umanitaria, secondo il cuore di Carlo Liviero, all’appello di Papa Giovanni Paolo II: “Non dobbiamo mai lasciare sola una donna che si prepara a dare alla luce un nuovo uomo che sarà per ciascuno di noi un nuovo fratello”.

E per tornare alle origini, ancora nell’Orto della Cera, ristrutturato nel suo corpo centrale in due case Famiglie (2006), dove già sei giovani dagli undici ai diciotto anni sono accolti. Nuova linfa alla speranza.

Ben si meritava mons. Carlo Liviero una via a lui intitolata a Monselice, in una zona in cui si respira aria di santità, ricordata visivamente dalla intitolazione delle vie parallele a quella di Liviero: S. Francesco e Immacolata, laterali di via S. Giacomo che si espande verso la chiesa e il complesso conventuale S. Giacomo, ricco di spiritualità, cultura e azione caritativa, secondo la secolare tradizione francescana.

La Chiesa nell’anno giubilare 2000, il 1° luglio, nella sala Clementina, presente il sommo pontefice Giovanni Paolo II, ha decretato, che mons. Carlo Liviero nella sua vita e impegno pastorale ha esercitato le virtù in grado eroico, riconoscendogli il titolo di Venerabile della Chiesa, primo passo verso la beatificazione e canonizzazione.

Indro Montanelli, durante la presentazione di un volume su don Marella al Circolo della Stampa a Milano, sorprese i presenti con questa affermazione; “Io non credo in Dio, ma nei santi sì, perché di santi io ne ho incontrati e tra questi vi era don Marella”. La stessa affermazione probabilmente l’avrebbe ribadita se avesse incontrato mons. Carlo Liviero.

 

Processione per san Francesco Saverio

 


APPENDICE

Emissione di due francobolli in occasione dell’anno Saveriano Antonio Ruspi

 A conclusione della tavola rotonda il Circolo filatelico-numismatico cittadino ha presentato due francobolli emessi dalle poste italiane per  commemorare il 450 ° anniversario della morte di s. Ignazio di Loyola e il V centenario della nascita di s. Francesco Saverio. Questi due francobolli sono stati emessi con una tiratura di 3 milioni e cinquecentomila pezzi.

Il primo francobollo è stato stampato dalle Officine Carte Valori dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Esso raffigura un cielo ornato d’arabeschi dorati, una libera interpretazione della pittrice e bozzettista Anna Maria Maresca, come si può vedere scritto sotto il valore in euro 0,60. E’ fluorescente, una quadricromia con più oro e più inchiostro imperferenziale trasparente oro. E’ stato emesso il 27 settembre di questo mese.

Abbiamo pensato di farci dare dalla Zecca di Stato un centinaio di cartoline con l’abside del Duomo vecchio di Monselice. Come hanno confermato i relatori di questo convegno, Francesco Saverio era in questa città nel 1537.  Abbiamo pensato il Duomo vecchio (1256) rappresenta ciò che Saverio poteva vedere mentre passeggiava per Monselice; quindi era inerente applicare alla cartolina il francobollo e obliterarlo con un annullo postale speciale di emissione 27 settembre 2006. Dopo questa descrizione del francobollo vogliate ora concedermi una semplice riflessione sul francobollo e sul collezionismo filatelico nel contesto della giornata di oggi. Il francobollo è un piccolo rettangolo di carta fluorescente su cui è riprodotta l’immagine del Santo portatore di un messaggio religioso sempre attuale. Il circolo filatelico ha creduto di partecipare alla celebrazione di questo cinquecentenario dalla nascita di Francesco Saverio con un piccolo contributo che vuole essere un omaggio ai fedeli di Monselice. Ciò testimonia la propria devozione affidando la propria anima ad un volto ritenuto sacro e perciò capace di conferire protezione anche materiale allontanando pericoli e operando miracoli. Precisiamo che la cartolina non è solo per collezionisti filatelici ma è anche un documento di grande significato simbolico da conservare con la stessa emozione con cui si conservano le testimonianze più importanti del nostro passato.


 

 

 

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