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Ville venete a Monselice

Venezia stabilisce subito un legame molto stretto con l’entroterra appena conquistato, determinandone l’ossatura economica e  territoriale con il controllo delle proprietà agricole. Agli edifici rustici, sparsi capillarmente per la campagna veneta, si affianca, a partire dal primo ‘500, la ‘villa domenicale’, emergente dal paesaggio e, nel tempo, nucleo aggregante di veri e propri borghi.
Anche nel monselicense numerose sono le famiglie veneziane impegnate nello sfruttamento della terra e legate a un soggiorno  sul posto. Nel centro storico sorgono sedi di villeggiatura e rappresentanza (Nani, Duodo) o luoghi di sosta verso i  latifondi più lontani da Venezia (Pisani); nel territorio circostante, le ville sono attorniate dalle proprietà e arricchite  da barchesse e adiacenze rustiche (Buzzacarini, Emo Capodilista). In ogni caso sono strutture che rompono l’uniformità del  tessuto urbano o paesaggistico, ponendosi come nuovo fulcro polarizzante.
Il pendio meridionale del colle di Monselice, da sempre sito privilegiato per le dimore nobili, ad esempio, assume alla fine  del ‘500, con gli interventi architettonici dei Nani e dei Duodo, una configurazione ancora oggi determinante il simbolo  visivo della cittadina. Se la prima fila, ristrutturata ampiamente nel corso del secolo successivo, si approprierò del pendio  con una scenografia scalea di terrazze all’inizio della salita verso la Rocca, ben altro intento progettuale sta alla base  dell’operazione che Francesco e Domenico Duodo iniziano tra il 1589 e il ’91 con l’acquisto di terre e vigneti nel luogo  detto “La rocchetta di San Giorgio posto sopra il monte de Moncelese” (Puppi-Olivato).
Se all’inizio i due fratelli prevedevano la costruzione di un sito per la villeggiatura dotato di oratorio privato, in  aggiunta alle altre loro proprietà ‘per uso’ poste in contrà Vallesella (così nell’Estimo del 1518), nel giro di pochi anni  si assiste a un radicale cambiamento d’intenzioni. Nel 15xxx  l’architetto vicentino Scamozzi è chiamato a redigere il  progetto della villa, che viene eretta in posizione perpendicolare a un tratto di mura ascendente il colle (e completata nel  1740 dall’ala che si aggancia ad angolo retto, di Andrea Tirali) con un disegno dalle linee sobrie: la liscia parete è  movimentata da una serliana centrale con loggetta, mentre un marcapiano aggettante la separa dal gioco di cornici bugnate del  portale e delle finestre al piano terra (al Correr un gruppo di disegni relativi: Puppi-Olivato). Il progetto , che verrà  invece eseguito entro il primo decennio nel ‘600, connoterà la salita alla villa con una struttura di pellegrinaggio  devozionale: le sei cappelle, volute dal nobile Duodo come altrettante tappe di una ‘via sacra’, saranno dotate in seguito  delle stesse indulgenze delle basiliche romane (Antoniazzi Rossi).
“…quella casina da Monselice…”: così lo stesso committente, Francesco Pisani, definisce in un codicillo al suo testamento  la dimora fatta costruire lungo la riva del canale una decina d’anni prima (1556 circa), quasi certamente come luogo di sosta  nel viaggio da Venezia alle sue terre in Montagnana (Kolb). Qui, il nobile veneziano abitava già il palazzo che il Palladio  aveva eretto dal ’53 al ’55, subito fuori le mura di Porta Padova con chiare connotazioni di edificio urbano, più che di  villa legata al governo dei campi (Zorzi, Puppi).
Sul filo dell’acqua che collegava fisicamente Monselice ad Este, correva dunque una stessa figura di committente per i due  edifici, affini nel disegno del prospetto, se pure qualitativamente distanti. Già la Temanza legava le due architetture all’intervento palladiano: l’influenza dell’artista vicentino è evidente nella facciata del palazzetto monselicense, scandita  da quattro lesene con bei capitelli corinzi in cotto culminante nel timpano arricchito dalle due ‘Fame’ che reggono lo stemma  di famiglia (eseguite peraltro nell’ambito del Vittoria, in stucco). Sono invece deboli le aperture delle finestre, presenti  anche nel timpano (come illustra la stampa del Coronelli, che aggiunge sul profilo del tetto tre pinnacoli scomparsi) e  anonimo il disegno dei fianchi e del retro.
La planimetria interna, due saloni passanti con i vani, ripete lo schema usuale dei palazzi veneziani già nel ‘400.  Se dunque la paternità palladiana dell’edificio viene necessariamente eliminata dalle incongruenze e debolezze del progetto e  ridimensionata all’influenza delle sue opere su un architetto minore, la decorazione ad affresco, che copre quasi tutte le  pareti, costituisce un altro legame indiretto con la cerchia di artisti, comprendente il Palladio, responsabili della  creazione delle ville venete più significative erette e decorate nel secondo ‘500.  Sono infatti ispirati affreschi del Veronese in villa Barbaro e Masera sia lo schema decorativo che la scelta dei soggetti:  le pareti dei due saloni vengono scandite dalla bianca trama di colonne ioniche scanalate, su balaustri, e da arcate sorrette  da cariatidi, oltre le quali si ‘aprono’ grandi paesaggi, vicinissimi a quelli di Maser per gli elementi costitutivi.
Sull’orizzonte basso campeggiano cieli striati da nubi sottili e tagliati lateralmente da radi alberi slanciati; ruderi  classici popolano le vallate altrimenti deserte, eccetto che per l’episodio di “Apollo e Dafne”, al primo piano. Questa sala,  di esecuzione qualitativamente superiore soprattutto nei paesaggi accuratamente descritti anche con architetture  contemporanee, ha come sovraporte quattro figure femminili, variamente atteggiate tra vasi e cariatidi a monocromo (al piano  terra vi sono busti con trofei di guerra). Hanno indotto un’attribuzione specifica al bresciano Lattanzio Gambara (presente  nel veneto ad Asolo, con certezza), peraltro insostenibile: il raffronto più diretto con gli affreschi di una villa a Caerano  S. Marco (TV), effettivamente della stessa mano, non appoggia l’ipotesi dato che neppure per questo ciclo esistono  documentazioni di paternità certa del Gambara. Il complesso decorativo di villa Pisani appare opera di più mani: l’artista  più qualificato sempre vicino ai modi di Giambattista Zelotti, verso il ’70; mentre più tardo, e minore, appare l’intervento  nelle sale laterali, affrescate con la stessa trama di finte architetture e con una serie di figure femminili e maschili, a  monocromo, entro nicchie.
Negli Estimi del ‘500 compaiono numerosi i nobili, per ‘case da stazio’ o ‘per uso’, a Monselice: Bembo, Bonmartini,  Malipiero, Renier, Contarini: scomparse o rimaneggiate profondamente nel ‘700 le loro dimore.  Sulla riva del canale, “fuori le mura di là del Ponte della Grolla”, rimane la casa domenicale dei Contarini (poi Avancini,  ora Businaro), ampiamente ristrutturata.  Appartengono invece di diritto al novero delle vie cinquecentesche costruite per il controllo dei latifondi, la dimora dei  Buzzacarini a Marendole e degli Emo Capodilista a Rivella.
La prima famiglia appare proprietaria di terre sin dal 1482; dalle carte dell’Estimo di un secolo dopo, si ricava la notizia  di una ‘casa domenicale’ ancora in situ. Un tempo collegata da una scalea al canale sottostante, si presenta oggi prolungata  da un’adiacenza a un piano e fronteggiata, di là del cortile lastricato, da un altro edificio simile, ritmato da semplici  portali in pietra. Appartiene al primo ‘700 l’intervento decorativo nel salone centrale, affrescato con una finta loggia,  oltre il quale stanno dei paesaggi e due ritratti a monocromo di personaggi della famiglia.  Riconducibile invece in ambito scamozziano (Cevese) è l’edificio eretto nel nono decennio sul canale, a Rivella, per i  Maldura (la data 1588 è scritta sotto il pronao), certo come sede di villeggiatura legata al governo d’ampie proprietà che  ancora oggi la circondano.

Chiara Ceschi Sandon, Monselice e le architetture di prestigio in età rinascimentale

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