RESTAURI, DEMOLIZIONI E TRASFORMAZIONI ESEGUITI
NELLE CHIESE DI MONSELICE DAL 1900 AL 1990 di Giuseppe TREVISAN
Tratto dall’opuscolo di Giuseppe Trevisan Z I B A L D O N E delle chiese e dei relativi operatori Secoli XIX – XX Monselice, maggio 2009 qui in formato PDF www.ossicella.it/archiviowp/restauri_monselice_trevisan.pdf
I N D I C E
Cap. 1 Il riordino delle vecchie chiese monselicensi 1.1 San Biagio, via San Biagio Cap. 2 Oratori esistenti nel dopoguerra Cap. 3 Duomo nuovo di San Giuseppe Artigiano Cap. 4 Operatori del Duomo Nuovo Cap. 5 Il patronato San Sabino Cap. 6 Apparato iconografico a corredo del testo |
Capitolo n.1
Il riordino delle vecchie chiese
1.1 San Biagio, via San Biagio
Questa chiesa nei secoli passati fu proprietà della congregazione di S. Maria dei Battuti, una confraternita di beneficenza. Alla fine del 1700 passò in esclusiva proprietà del duomo di Santa Giustina perché la confraternita era cessata. L’arciprete Angelo Cerato nel 1948 tolse oggetti sacri e addobbi dalla chiesa posta al piano terra e dalla sala del primo piano, che una volta serviva per gli associati e poi il PT trasformò in cinema.
Per conto della ditta Andolfo Massimiliano che doveva fare i lavori, andai colà per vedere come organizzare il cantiere. In un angolo della sala superiore vidi in mezzo alla spazzatura tre libri rilegati in pelle marrone. Li controllai, erano gli elenchi dei soci della congregazione suddivisi per anno a partire dalla metà del Seicento fino agli ultimi anni del Settecento. Subito informai l’arciprete che mi pregò di farglieli avere. All’indomani i libri erano spariti! Incuriosito dai libri mi interessai alla storia di quella chiesa, così riuscii a conoscere qualche cosa. Essa fu consacrata il 18 luglio 1618 dal vescovo di Chioggia e l’attività della congregazione finì alla fine del 1700 per scarsità di soci. Davvero quei libri avrebbero potuto dire ora molte cose con precisione anche se erano solo elenchi di persone! Fino all’ultima guerra la chiesa fu usata solo per la festa patronale o per qualche occasione particolare, anche perché era sprovvista di arredi sacri; aveva solamente sedie ottocentesche con il sedile di paglia e qualche addobbo di modestissima fattura. L’arciprete nel 1947, dovendo abbattere tutti i fabbricati del patronato San Sabino dove c’era anche la sala per il cinema, attrezzò questa chiesa per gli spettacoli cinematografici solo al piano terra, con modesti lavori per i servizi e gli accessi richiesti dalla legge nelle sale pubbliche. Si ottenne una discreta sala arredata con tutto quello che c’era in quella del patronato San Sabino. Il nuovo cinema fu chiamato Italia. Nei lavori di trasformazione furono aperte alcune porte di sicurezza e fu demolito il portale della chiesa che era a destra della facciata, proprio di fronte alla prima parte di via S. Biagio, perché i conci di trachite avevano simboli religiosi. L’arciprete, ritenendo inopportuno lasciare in vista dei motivi religiosi in una sala cinematografica, li fece togliere e furono posti a mo’ di sedile vicino a un muro di confine dell’ex patronato San Sabino. Per circa trent’anni rimasero colà e poi, per fare pulizia, furono portati in discarica, almeno così si credeva. Fortunatamente nel restauro dell’immobile dell’ex chiesa fu ripristinato il portale, spostandolo però al centro della facciata. Io ricordai chi aveva fatto pulizia del cortile del patronato e gli chiesi dove erano finiti i conci in trachite; li aveva conservati lui, così fu possibile ripristinare il vecchio portale. Il cinema funzionò per una dozzina d’anni e fu poi traslocato nella cripta del sottochiesa, zona predisposta durante la costruzione per ottenere un magazzino, dove furono riusati gli arredi del cinema Italia. Da qui il cinema passò definitivamente nella sede dell’attuale “Corallo”, ricavato nell’ex chiesa San Luigi in via Matteo Carboni. Vi fu il terzo spostamento perché l’arciprete Cerato aveva trovato un acquirente per tutto l’immobile di San Biagio da usare come laboratorio di abbigliamento. Verso il 1985 l’attività cessò e l’immobile fu venduto. Il nuovo proprietario a sua volta lo rivendette al Comune di Monselice. L’amministrazione comunale, dopo alcuni anni di studio, iniziò il restauro della facciata e del tetto per farne un centro culturale. I lavori terminarono nel 2004 e attualmente l’immobile è una bella biblioteca comunale ben attrezzata.
1.2 San Luigi, via Matteo Carboni (ora cinema Corallo)
Questa chiesa, di fattura semplice e di costruzione non molto antica, era la Scuola della confraternita del Santo Rosario che aveva sede nella vicina chiesa di Santo Stefano. Cessata la suddetta confraternita, la chiesa passò in proprietà delle pieve di Santa Giustina. Nel 1947 la chiesa era in discreto stato di manutenzione e veniva usata solo di domenica per la dottrina cristiana e per la festa del patrono San Luigi. Aveva tre altari con pale, ma senza arredi, una sacrestia con un piccolo bancone e un andito laterale che la collegava alla pubblica via Matteo Carboni. La facciata aveva quattro paraste, un timpano con cornicione, un portale di trachite, con sopra una finestra a oblò. I tre altari esistenti furono tolti nel 1949, due furono portati nella cripta del sottocoro, il terzo donato a una chiesa del circondario. Durante questa operazione, sotto la pietra santa dell’altar maggiore, fu trovata una piccola pergamena che riportava i dati della consacrazione fatta dal vescovo Rezzonico e che ora si trova in canonica. ( Una piccola curiosità: dentro la muratura di quell’altare fu trovata anche una bolletta del gioco del lotto, intestata a Giobatta Tosello, del 1889 probabilmente persa durante i lavori di restauro. Baldassare Gusella mi precisò che il Tosello era il padre di un anziano capomastro, a sua volta padre di altri muratori che erano stati suoi colleghi di lavoro). La chiesa dismessa di San Luigi non fu venduta, anche se vi erano parecchi corteggiatori, perché fu ritenuta subito utile per una futura sala parrocchiale. Ad accelerare l’uso della ex chiesa provvide una proposta, subito accettata da monsignor Cerato, fatta dal signor Pippa gestore della sala cinematografica “Roma” di proprietà della Società Operaia. (Il cinema Roma, chiamato prima della guerra 1940- 45 Teatro Sociale, fu bombardato e gravemente lesionato da una incursione area, tanto che in quell’occasione vi furono parecchi morti tra i civili italiani e i militari tedeschi che erano in attesa di entrare al cinema. Questi ultimi sono stati sepolti all’esterno della mura cimiteriale dove si vedono tante piccole croci con i nomi dei caduti). Il signor Pippa approntò tutto l’arredo, il macchinario e gli impianti tecnologici, la parrocchia provvide ai lavori murari di trasformazione interna ed esterna. Nella sacrestia furono creati i servizi e la cabina di proiezione, nell’andito fu costruito un largo corridoio di entrata, la facciata fu corretta il più possibile per togliere l’aspetto di chiesa. La convenzione stipulata prevedeva per vari anni l’uso gratuito della sala e il privato si impegnava a non proiettare nel cinema Roma pellicole proibite dalla commissione cattolica di sorveglianza: così nacque il “Corallo”. Terminato il tempo pattuito, il privato si ritirò perché aveva nel frattempo costruito la sala “Astoria”. Da allora il Corallo passò alla gestione parrocchiale che ancora continua per opera di un gruppo di volontari laici ai quali bisogna dare un grosso plauso per la capacità e la costanza.
1.3 San Paolo, via del Santuario
Quando si parla di San Paolo è implicito comprendervi anche la chiesa della Buona Morte, posta al primo piano, con accesso per mezzo di un’elegante scala di pietra, proprio sopra la navata laterale sinistra di San Paolo e della sacrestia. L’immobile, anche se fu usato fino al 1948, non era in buono stato manutentivo e presentava qua e là crepe e infiltrazioni d’acqua. In San Paolo vi erano cinque altari che subirono sorti diverse. Nella navatella di sinistra vi erano due altari di fattura neoclassica: uno piccolo che è rimasto in sito e uno grande con un sarcofago di vetro, dove era conservato il corpo di santa Filomena; l’urna fu portata nella chiesetta di San Giorgio e messa assieme agli altri Corpi Santi, l’altare fu donato. Nella navata centrale, oltre all’altare maggiore, vi erano tre altari. Quello maggiore, opera settecentesca di buona fattura, è stato venduto per un milione di lire alla chiesa parrocchiale di Ospedaletto Euganeo dove si può vedere. Negli anni 50 la chiesa di Ospedaletto Euganeo aveva subito gravi danni per un incendio che aveva distrutto tetto, soffitto e il settecentesco altare maggiore. I lavori di ristrutturazione furono eseguiti dall’impresa Andolfo. Fu in quell’occasione che il parroco di Ospedaletto venne avvisato da me della possibilità del riuso dell’altare maggiore della chiesa di San Paolo allora dismessa. Quel sacerdote lo acquistò subito. Il parroco di Ospedaletto provvide a far smontare e trasportare l’altare. Durante i lavori di demolizione fu trovata nella pietra santa la pergamena a ricordo della consacrazione eseguita dal vescovo Rezzonico, lo stesso della consacrazione di San Luigi. La pergamena si trova nella canonica di Monselice. Dei due altari a lato dell’arco a tutto sesto uno fu donato e l’altro, che aveva la grotta della Madonna di Lourdes, si sbriciolò. Lungo la parete prospiciente via del Santuario vi era un altare importante e famoso, anche se di modesta fattura: custodiva le reliquie di San Sabino racchiuse in un cofanetto. Al posto della pala vi era un armadio di legno, con uno sportello a due ante sempre chiuse; là c’era l’urna del Santo la cui storia nei secoli si è talvolta intrecciata con quella di Monselice. La chiesa di San Paolo, sconsacrata, fu venduta al comune di Monselice con la raccomandazione che il suo utilizzo avesse una destinazione culturale (prima della cessione fu fatto anche un controllo delle tombe che risultarono vuote ). Il Comune provvide subito a mettere in luce la cripta di San Francesco, dove c’era un affresco duecentesco raffigurante il Santo, che fu staccato perché il supporto era ormai deteriorato e ora è patrimonio del Comune di Monselice. Successivamente si provvide al completamento della pavimentazione in quadrotti bianchi e rossi dove erano stati tolti gli altari, al rinforzo della fondazione di facciata, al rifacimento di tratti di muratura e di intonaco, alla pulizia generale: così si iniziò a usarla come auditorium. La sala però, spoglia di ogni addobbo, rivelò una pessima acustica; allora il Comune provvide a istallare pannelli di correzione che migliorarono sì l’acustica, ma non eliminarono del tutto il difetto. La sala allora fu abbandonata, anche se durante i lavori di miglioria acustica era stata installata una caldaia a metano per il riscaldamento ad aria. Poco dopo l’abbandono, per ragioni di sicurezza il Comune dovette ristrutturare totalmente la sala della Buona Morte e le sottofondazioni alla pilastrata centrale che divide le due navate di San Paolo. Passati pochi anni una catena del coperto si ruppe all’appoggio, spaccando nel contempo una conversa del tetto, così il Comune dovette provvedere di nuovo. Molti hanno criticato la vendita di San Paolo, ma, richiamando alla mente le opere che ha dovuto fare il Comune, come avrebbe fatto la parrocchia per provvedere alla bisogna? Sicuramente non avrebbe potuto spendere per quell’immobile, così tutto sarebbe andato in rovina. Addossato alla chiesa c’era un fabbricato, abitazione prima del parroco e poi di un cappellano, di proprietà del Comune. Fu abbattuto dopo l’ultima guerra, perché molto deteriorato, e ricostruito con i rimborsi statali concessi per un altro fabbricato comunale di piazza Mazzini distrutto dai bombardamenti.
Quest’ultimo palazzo non fu ricostruito per rendere più spaziosa la piazza, mentre il nuovo edificio divenne la “Casa dell’agricoltore”. E’ da ricordare poi il lavoro sul piccolo piazzale antistante San Paolo, dove furono costruiti i servizi igienici pubblici nell’anno 1952. In questo luogo successe un fatto che creò sconcerto in molti cittadini spettatori involontari dell’accaduto. Nello sbancamento con una delle prime macchine escavatrici, che attiravano la curiosità di molti, furono trovate ossa umane e addirittura molti scheletri interi, che furono trasportati assieme al terriccio nella pubblica discarica senza nessuno scrupolo e nessuna pietà per quelle povere spoglie. Ora, nel 2006, posso aggiungere che i lavori di riatto dell’ex chiesa, dopo lunghe, travagliate e dispendiose progettazioni e lavori, hanno finalmente prodotto un lapidario archeologico. Per lo scrivente i risultati sono il prodotto di un lodevole sforzo progettuale, peccato però che ora manchino i reperti adatti per quell’ambiente! Infine una domanda: prima degli ultimi lavori c’era in fondo alla navatella di sinistra un altare marmoreo di stile neoclassico; perché è stato tolto? Dov’è andato a finire? Allo scrivente sembra che quel piccolo altare, non invadente e per di più grazioso e ben ambientato, poteva essere mantenuto sia come testimonianza, sia perché certamente non disturbava il volume e anche perché quel museo ha pur sempre l’impronta di chiesa. Per ultimo, una proposta. Nelle nicchie interne della facciata vi erano due statue di gesso dello scultore monselicense Paolo Boldrin (il progettista del monumento ai caduti) donate, dopo la sua morte, al Comune di Monselice dagli eredi Giuseppe ed Erminio Boldrin. Attualmente sono poste in un ripostiglio. Sarebbe opportuno il loro ricollocamento in sito, con l’aggiunta di una breve indicazione dell’artista e dei donatori.
1.4 San Martino, via Tassello e via San Martino
Questa chiesa ebbe varie vicissitudini per la sua lunga storia, come si può leggere in libri e opuscoli a lei dedicati. Qui accenno solo a fatti del secolo ventesimo di cui sono stato testimone. Durante il periodo di mons. Gnata la chiesa subì trasformazioni, ma non ebbe nel contempo una sufficiente manutenzione, perché il cappellano, che badava anche alla grande parrocchia di santa Giustina, doveva conferire le offerte raccolte all’arciprete. La più importante modifica della chiesa avvenne verso il 1927, quando il cappellano don Riccardo fece trasformare il vano a sinistra, riservato al pulpito, in cappellina dedicata alla Madonna.
Per accedere al pulpito vi era una scaletta entro il muro, la cui porta di partenza era sulla navata dove è ancora visibile. Il pulpito aggettante verso la navata aveva una balaustra in pietra policroma. Con la trasformazione fu tolta la scala, chiusa la porta di arrivo, la balaustra fu messa come altare, fu costruito un soffitto a botte abbassato rispetto al portale esistente e così si ottenne una piccola cappella di aspetto gradevole affrescata dal pittore locale Augusto Manfrin. Come riscontro si potrà controllare l’altare e si vedrà che le sagomature dell’ex copertina della balaustra sono ora corrette da liste di legno per dare linearità all’ara. Nel 1946 a ricordo dello scampato pericolo durante i tanti bombardamenti vicini alla chiesa (infatti erano cadute bombe che avevano portato morte e distruzione nella via San Martino e nella sottostante via Tassello) i sanmartinesi decisero di sistemare un po’ l’interno della chiesa che era allora in condizioni squallide. Furono eseguiti rappezzi di intonaco, tutta la chiesa fu ritinteggiata, furono rifatte le decorazioni della cappellina della Madonna e furono sostituiti i finestroni di legno con altri di ferro. (Purtroppo essendo fissi non si potevano aprire, per cui una volta che la chiesa fu dismessa e chiusa, non essendovi nessuna aerazione, l’umidità interna si condensava sui gradini di marmo degli altari rovinando soprattutto quelli a nord). Autore delle ritinteggiature e delle decorazioni fu ancora Augusto Manfrin, uomo dalle molte belle qualità: arte, bontà, intelligenza, ma talmente schivo che non ha mai reclamizzato le sue capacità di pittore, poeta, commediografo, per cui viveva facendo solo l’imbianchino. Durante quei lavori furono tolti anche quattro lampadari di Murano pendenti dal soffitto del tipo a goccia, molto belli ma che non si adattavano in modo armonico col contesto della chiesa. Furono depositati nella soffitta della canonica di San Martino e venduti dopo anni da monsignor Cerato. Ho saputo che quei lampadari erano stati regalati da una associazione femminile poco dopo la fine della prima guerra mondiale. Iniziato l’accorpamento della parrocchia nel nuovo duomo, San Martino fu usata come chiesa dei defunti, perché là si celebrarono tutti i funerali del paese fino a che non furono costituite le altre tre nuove parrocchie. Verso gli anni ’50 monsignor Cerato provvide a qualche consolidamento statico della chiesa; furono fatte le sottofondazioni all’angolo della sacrestia verso la scalinatella che mena in via Tassello, fu aggiustata con robuste mascelle di rinforzo una capriata centrale della navata e furono eseguiti rappezzi al manto dei coppi, tutti lavori eseguiti dall’impresa Andolfo.
Quando entrarono in funzione le nuove parrocchie, San Martino fu usata saltuariamente per i fioretti nel mese di maggio, per la festa del Santo l’undici novembre ed infine per la festa di santa Lucia il tredici dicembre. In quest’ultima festa di vecchia tradizione viene benedetto e distribuito il “pane di Santa Lucia” a forma di un bulbo oculare con quattro ciglia; è un pane dolce e leggero del quale il panificatore tiene segreti la miscela di farine e gli altri ingredienti. Dopo la creazione della parrocchia del SS. Redentore, che ha ereditato quasi del tutto l’ex riparto di San Martino, la celebrazione della festa di santa Lucia viene fatta in due chiese: San Martino e SS. Redentore. La chiesa di San Martino in circa tre lustri di semiabbandono degradò in modo veloce e si evidenziarono gravi deficienze specie nei tetti. A questo punto è giusto ricordare che, se non vi fossero state l’insistenza di continue proteste e la costante opera di pulizia e arieggiamento, fatte dai coniugi Giacomina e Armando Bonantini, San Martino avrebbe subito gravi danni con la caduta parziale del tetto, come poi ho potuto constatare nei restauri. Giacomina e Armando riuscirono a coinvolgermi, come geometra e titolare dell’impresa Trevi di Monselice, anche perché allora abitavo vicinissimo alla chiesa e ne conoscevo specificamente le deficienze. Subito nel febbraio 1983 feci una relazione dettagliata alla parrocchia del Duomo, proprietaria della chiesa, e questa la portò a conoscenza del Comune chiedendo aiuti. Successivamente scrissi il 25 settembre 1984 all’assessore alla cultura di Monselice e infine il 30 settembre 1987 di nuovo alla parrocchia in specifico per il tetto che lasciava penetrare tanta pioggia. Per coloro che desiderano controllare si rimanda alla documentazione finale ove ci sono undici facciate scritte in proposito. Dio volle che alla fine degli anni ’80 vi siano state coincidenze fortuite che hanno portato al restauro totale dell’immobile, salvando così la chiesa. Il geometra Paolo Parisen Toldin della Soprintendenza di Venezia, originario del rione di San Martino, chiese alle autorità religiose di Monselice la loro disponibilità per l’iter burocratico necessario al restauro della chiesa, in quanto la Soprintendenza aveva soldi, ma non aveva tecnici sufficienti per redigere le numerose carte. Monsignor Arciprete chiese allora aiuto per la bisogna all’ingegnere comunale Romito che gli indicò, come esperto nelle procedure per il riatto delle opere antiche, lo scrivente. Io di buon grado accettai l’incombenza. Si trattava di preparare i documenti per una perizia di lire 105 milioni. Occorrevano una relazione fotografica, una storica e una tecnico-economica. Per conto della parrocchia ne feci una datata sei aprile 1988 per il restauro del tetto della chiesa in coppi e per il tetto della cuspide in lastre di rame. La mia ditta vinse la gara d’appalto essendo già nell’elenco ufficiale per i restauri monumentali. Ci furono poi due altre perizie. Dapprima una del 10ottobre 1989 di lire 150 milioni, per consolidamento murature, intonaci, soffitti, cantoria, nuovi finestroni, solaio galleggiante nella navata contro l’umidità e nuovo pavimento di marmo. Infine la perizia del 28 aprile 1990 di lire 100 milioni per restauro facciata, appendice dell’entrata, cunicolo deumidificatore a nord, costruito all’esterno, e un tratto di linea elettrica per comando apertura di finestre alte adatte per la ventilazione. In totale gli importi pagati dalla Soprintendenza furono di lire 355 milioni, sempre ottenuti per interessamento del geometra Paolo Parisen Toldin aiutato da me nel disbrigo delle pratiche. Infine la comunità di San Martino, assistita dalla parrocchia del Duomo, provvide alla tinteggiatura interna, al restauro di tutte le tele e della statua lignea di Santa Lucia. Ora nel 2006 la comunità dei sanmartinesi si occupa della sistemazione del vecchio organo che verrà installato nella cantoria già restaurata quindici anni fa.
Durante i vari lavori, particolarmente nella costruzione del nuovo pavimento poggiante sul solaio galleggiante, ho potuto verificare le variazioni subite dall’edificio a partire dal ‘700. Il Salomonio nella sua opera “Agri Patavini …” da pag.53 a 55 annovera ben 24 lapidi in San Martino, parecchie delle quali pietre tombali, mentre nel 1990 sul pavimento ve ne erano solo una decina. Su una lapide posta a sinistra, sopra la cappella della Madonna, si legge che il rettore Pietro Antonio Armetto ampliò la chiesa nel 1749. Infatti, scavando circa 45 cm nella navata per eseguire un solaio arieggiante, abbiamo trovato un pavimento, in terrazzo veneto di esecuzione povera, più corto della superficie demolita di metri 5,50. Nel contempo a una profondità di 10 centimetri dalla quota dei quadrotti di marmo abbiamo trovato negli angoli delle paraste, cioè delle finte colonne addossate al muro, i resti di un pavimento in mattoni di laterizio. Ne ho dedotto che nel 1749 hanno costruita la facciata più avanti aggiungendovi anche il piccolo pronao. Ancora ho notato che hanno rialzato di 30 centimetri il piano di calpestio con materiale di risulta, costruendovi poi sopra un pavimento in mattoni. In quella occasione devono aver costruito i quattro altari in marmo settecenteschi. Per quanto riguarda poi l’altare maggiore, esso è stato installato anni prima dell’ampliamento perché, nella lapide sopra il portale a destra, è scritto che Carlo Rezzonico vescovo di Padova consacrò l’altare maggiore nell’ultima domenica di settembre del 1744, cioè cinque anni prima dei grandi restauri. Non vi è dubbio che, eseguendo l’ampliamento della navata del 1749, molte lapidi siano state tolte e successivamente disperse. Il pavimento di laterizio fu sostituito nel 1801 da un altro in marmo bianco e rosso di Verona rialzando la quota del pavimento di circa 10 centimetri. Tutto questo si può rilevare dalle pietre tombali coeve al primo pavimento in marmo. In questi ultimi lavori del 1801 devono anche aver installato i due confessionali di fondo incassandoli parzialmente nella muratura. Durante i lavori eseguiti quindici anni fa il confessionale di sinistra posto a nord era molto deteriorato, così è stato levato e portato nel sottochiesa che allora era un deposito di robe vecchie. Questo lavoro ha messo in luce sia il vecchio battistero, sia il metodo di lavorazione dell’ampliamento. Quelle murature furono costruite in grande economia col metodo chiamato a sacco e usando solo sassi. Al momento della progettazione dei restauri, cioè prima di conoscere il tipo di muratura, si era ipotizzato di creare alla base delle murature del lato nord uno strato impregnato di silicati contro l’umidità capillare risalente; non si è potuto fare quel lavoro perché le murature erano incoerenti. Il sistema usato una volta consisteva nel fare prima i due paramenti paralleli di muratura distanziati fra loro e poi riempire il vuoto con materiale vario gettato in opera con pochi legamenti di malte. In sostituzione di questa ipotesi di restauro è stato fatto un cunicolo deumidificatore. Negli scavi per il solaio galleggiante si sono trovate alcune pietre tombali già citate dal Salomonio e quella di pietra tenera di certo Bozza Sebastiano deceduto il 6 dicembre 1756 e quindi sessant’anni dopo il passaggio del Salomonio. Quando nel 1801 il primo pavimento fu rialzato di 10 centimetri per quello di marmo furono portate alla stessa quota solamente tre pietre tombali esistenti nel pavimento di laterizio. Si riconoscono per il marmo diverso: una è davanti alla porta del campanile, un’altra alla porta della sacrestia, di pietra d’Istria bianca, la terza, vicina alla cappellina della Madonna, è datata 1756 e ha un colore rosso diverso. Costruendo il nuovo pavimento abbiamo portato in quota tutte le pietre tombali che abbiamo trovato. Ricordo quella centrale grande col sigillo formato da vari pezzi di lapidi di ricupero e altre due, fra le quali quella del 1584 relativa alla sepoltura di Ser Bernardin Zerba, che il Salomonio trascrisse in Bernadin. Tutte le tombe rialzate erano senza ossa umane. Fra quelle già in quota, che ora si distinguono per le tonalità diverse del marmo di pavimento e che furono costruite solamente nel 1801, ne furono ispezionate due della congregazione del SS. Sacramento. Furono trovati scheletri ricoperti da un manto di polvere bianca. L’archeologo della soprintendenza precisò che erano scheletri di persone morte per malattie epidemiche e che erano state disinfettate con calce viva. Per me esecutore di tutti i lavori è motivo di soddisfazione aver contribuito al salvataggio della chiesa di San Martino, oggi il miglior monumento settecentesco della città. Così pure sono orgoglioso di aver concorso a quei restauri senza pretendere l’onorario per i miei lavori di ricerca e preparazione dei documenti.
1.5 San Tommaso apostolo, (Santomio), via San Tommaso
Dal 1919 questa chiesa, che aveva cessato di essere sede parrocchiale, fu usata solamente per cerimonie saltuarie. La custodia e la pulizia fu assunta volontariamente dalla famiglia Florindo Breda, i cui eredi abitano ancora nel secondo troncone di via San Tommaso, ora denominato via La Marmora. Il sacerdote che teneva viva la tradizione di quella chiesa fu monsignor Basilio Mingardo, prete anziano di cui si dirà più avanti. In quella chiesa si venerava l’otto settembre la Madonna del pomo, perché vi era una vecchia statua policroma di una Madonna con in mano una mela. Questa statua, l’otto settembre 1956, fu prelevata dalla chiesa dismessa e trasportata prima nella cripta sottochiesa e poi esposta nel duomo, è giudicata da tutti opera d’arte. Era appartenuta in origine alla famiglia Grimani di Battaglia Terme ed ornava il loro oratorio privato. Lo dimostra una foto scattata quando la statua era ancora a San Tommaso; alla foto è allegato un cartoncino scritto a mano ove si legge: “Statua della Beata Vergine della mela già nella cappella di Cà Grimani in Battaglia ora nella chiesa di San Tommaso apostolo di Monselice 2 luglio 1925”. Questa fotografia è proprietà della famiglia Breda. Secondo me la statua è arrivata in San Tommaso per opera di mons. Basilio Mingardo che riuscì ad ottenerla quando la chiesetta, a lei dedicata, fu dismessa. Andrea Gloria, ne “Il territorio padovano illustrato, III°, 1862” scrive che la chiesa di Battaglia, governata da un cappellano avente cura di anime, per molto tempo fu sottoposta alla Pieve di Monselice e che gli oratori soggetti al cappellano erano tredici, tra cui quello Grimani. Ritengo perciò che per questi vecchi legami sia stato possibile il trasporto di quella statua a Monselice. Sempre in San Tommaso veniva venerata anche santa Eurosia, patrona contro i fulmini e la tempesta e là venivano distribuite immagini della Santa il 25 aprile di ogni anno, al tempo delle rogazioni, quando si invocava il bel tempo per i futuri raccolti. Fino a una cinquantina d’anni fa Monselice era prevalentemente rurale, così si ricorreva alla intercessione della santa per allontanare i nubifragi e salvare i raccolti. Sorse allora l’abitudine di esporre la sua immagine nei fienili e nelle barchesse, come nelle stalle esponevano quella di sant’Antonio abate o san Bovo. Su una parete della chiesa erano appesi alcuni modesti ex voto tra cui un piccolo quadro a olio raffigurante santa Eurosia. Questo quadro fu fatto restaurare da me durante i lavori di rifacimento, ora è proprietà della provincia di Padova che è anche proprietaria della chiesa. Sempre durante i restauri ho trovato delle stampe di santa Eurosia molto rovinate dalla pioggia. Quei fogli, che mostravano un disegno in bianco e nero di tipo popolare molto in uso nel settecento, erano chiamati “stampe per via”. Riuscii a salvarne due, dai quali ricavai fotocopie che regalai qua e là, perché di quella santa si era persa la memoria. Quando poco prima della seconda guerra mondiale fu costruita attorno alla Rocca la prima circonvallazione, nell’attuale incrocio di via Galileo Galilei con via San Tommaso c’era una strozzatura formata da una casa che aveva una nicchia con un malandato affresco di santa Eurosia. La casa fu abbattuta e ricostruita a fianco della nuova circonvallazione. Oggi in questa casa sulla parete rivolta verso la chiesa si può vedere una nicchia con un dipinto a olio simile a quello distrutto, e per ora quasi illeggibile, opera del pittore Augusto Manfrin già ricordato. La chiesa di San Tommaso, dopo l’accentramento parrocchiale degli anni 40, fu dismessa e gli arredi furono portati in duomo. Abbandonata degradò rapidamente sia per l’incuria sia per opera di vandali e ladri. Questi ultimi rubarono le cassette in ferro per le elemosine, una delle quali era una cassaforte, tutte le panchine perimetrali costruite con modiglioni di supporto in trachite lavorata, alla fine rubarono il soffitto ligneo a cassettoni del transetto di sinistra e perfino la parte terminale dell’asta parafulmine che era dorata. Monsignor Cerato allora regalò i due altari rimasti alla parrocchia di San Cosma, ove era parroco il suo allievo don Candido Frigo, lasciando la chiesa sguarnita il più possibile. Intanto parte del tetto della navata cadde, così nessuno osò più entrare per pericolo di altre rovine; alla fine nell’interno si svilupparono grossi cespugli di erbacce. Forse per questo caso il soffitto del transetto a destra rimase in opera e fu poi restaurato dai falegnami Bruscagin e Babetto. Fortunatamente attorno al 1976 il dott. Aldo Businaro, grande cultore delle patrie glorie, interpose i suoi buoni uffici tra la parrocchia del Duomo e il Parco Colli, ente di emanazione provinciale, al quale l’arciprete monsignor Martino Gomiero vendette la ex chiesa per usi culturali al prezzo simbolico di un milione e mezzo di lire. Il Consorzio si attivò e la Soprintendenza ai monumenti di Venezia provvide negli anni 1978-79 a stanziare fondi per il recupero dell’immobile con lavori che vennero eseguiti dalla mia ditta specializzata in restauri monumentali. Quei rifacimenti portarono alla scoperta di reperti storicamente interessanti. Furono rinvenuti sulla parete a sinistra della navata affreschi dei secoli XII e XIII. Costruendo poi il solaio del pavimento galleggiante fu accertato che nell’abside vi erano in antico tre absidiole e che, per costruire il transetto a sinistra, avevano demolito in parte la parete affrescata, adoperando poi quel materiale per costruire un tratto di muro onde sorreggere il tetto. Fu così che nel rifacimento del coperto fu demolito lo spuntone e sostituito con orditura lignea. Raccolsi parecchi “bolognini”, blocchi squadrati di trachite affrescati da una parte, che ho fatto sistemare a muro, tanto che ora fanno bella mostra di sé nel transetto a sinistra.
Per quanto riguarda le tre absidiole, la soprintendente architetto Pross e il suo vice Fontana hanno personalmente controllato e studiato in sito le poche fondazioni che erano state scoperte. Alla fine hanno concluso che in origine le absidiole dovevano essere tre e non due come si riteneva fino allora. Negli scavi eseguiti per la pavimentazione il dott. Salvatori, archeologo della Soprintendenza, non trovò niente di significativo all’infuori di qualche monetina di rame della Repubblica di Venezia. Il campanile si trovava in buono stato e non fu restaurato. All’esterno sul fianco destro c’era un grande cippo marmoreo: qualcuno diceva che era una pietra miliare romana, altri un cippo funerario romano, lo portammo all’interno per timore dei ladri ponendolo vicino ai bolognini affrescati. Durante il periodo di abbandono della chiesa, quando più nessuno se ne interessava, un personaggio eccentrico che tutti chiamavano Piero, di nessuna cultura ma di lingua tagliente che viveva di pubblica carità, elesse la cella campanaria come sua dimora perché era stato sfrattato e non voleva disturbare nessuno. Morì poco prima che iniziassero i lavori di restauro.
1.6 Carmine, via Trento Trieste
Era questa la chiesa amata dai montericani per la cui festa, il 16 luglio, organizzavano la processione, spesso i fuochi artificiali la sera e ornavano la facciata con addobbi di primizie dei campi. Questa chiesa fu l’ultima a essere dismessa. Tutto ciò che poteva servire fu dato alla nuova parrocchiale denominata sempre del Carmine con sede in via Valli. All’interno vi erano anche delle lapidi infisse nei muri che furono lasciate in sito. C’era anche la statua di San Giovanni Nepomuceno che fu donata a Villa Immacolata di Torreglia. La statua era posta su una mensola, ancora oggi esistente nell’ex chiesa, dove è scritto: “Dal ponte della pescheria qui trasportata nel 1875”. Quella statua fu regalata a Villa Immacolata di Torreglia sia per fare un omaggio al Vescovo, che tanto amava quella istituzione, sia come ricordo di monsignor Piero Brazzo, direttore di quell’opera, che era stato cappellano a Monselice per diversi anni. La ex chiesa fu venduta a un commerciante che ne fece un magazzino su due piani ponendo in opera un solaio tipo “Varese” sostenuto da travi di cemento preconfezionate e collocate forando le pareti. Quando il proprietario spostò i magazzini nella zona industriale, la chiesa dismessa venne posta in vendita. Allora il dott. Aldo Businaro raccolse aiuti finanziari tra enti e amici e la acquistò donandola poi al Consorzio Colli, perché ne facesse un centro culturale. L’Ente provvide al restauro generale, dapprima con l’aiuto della Soprintendenza, poi direttamente risanando l’ambiente e preservandolo dall’incuria. In quella occasione furono rimesse sul timpano della facciata le tre statue originali, perché le suore del Carmelo che le avevano avute in regalo, pur di ripristinare il vecchio edificio, si accontentarono di avere tre copie pantografate delle vecchie statue.
1.7 Pieve di Santa Giustina, canonica e casa del sagrestano, largo Paltanieri.
Nel 1957, in occasione del settimo centenario del Duomo vecchio, il sagrato di Santa Giustina fu intitolato Largo Paltanieri, in ricordo del cardinale che fece costruire la chiesa nel 1257. Il duomo, già ristrutturato nel 1929, aveva nella seconda metà degli anni sessanta bisogno di ritocchi, specie nelle opere di legno, soprattutto quelle della sacrestia. Esse furono rimaneggiate, pulite e qua e là rifatte con essenze similari dove vi erano pezzi mancanti o molto deteriorati. I falegnami della ditta Andolfo vi lavorarono per oltre un mese. E’ da ricordare la bravura dei restauratori Firminio Bruscagin e Paolo Babetto aiutati dall’artigiano Alberto Roveroni per le opere tornite. Il lavoro riuscì in modo eccellente tanto che nessuno oggi s’accorge dove i legni furono sostituiti. In quell’occasione fu costruita una nicchia sulla base del soffitto a volta, ove fu posta la Madonnina in alabastro di scuola berniniana che prima era nella chiesetta di San Giorgio. Da là era stata tolta per paura dei ladri e tenuta nascosta fino a che non fu trovata una destinazione sicura e confacente. Contemporaneamente furono restaurate le scale della torre campanaria, la cattedra e gli scanni del trono abbaziale. Questi ultimi meritano una chiosa perché avevano le superfici piane dipinte con i Santi Sabino, Giustina e cori di angeli. Le figure però erano tutte segnate; evidentemente i chierichetti si erano divertiti per lungo tempo a raschiarle con le monetine metalliche. L’arciprete Cerato, constatato che le immagini erano state dipinte sopra lo strato di verniciatura, quindi dopo la costruzione e perciò non coeve all’opera lignea, fece togliere le pitture dal falegname Bruscagin. Questo lavoro eseguito con lo sverniciatore ricondusse il legno al suo primitivo aspetto. A proposito mi sento di poter precisare che quelle figure furono certamente dipinte dal professore Silvio Travaglia di Monselice quando, nel 1927-29, fu restaurato il duomo di Santa Giustina per opera dell’arciprete Luigi Gnata. La stessa cosa era capitata all’affresco posto sotto il protiro, nella lunetta superiore della porta principale: fu rifatto dal Travaglia perché quello esistente era molto rovinato e illeggibile. So queste cose perché mi furono riferite più volte da due persone che in quegli anni assistettero ai restauri e ben conoscevano il professore Travaglia, allora insegnante di disegno nelle scuole della città:sono mio suocero Massimialiano e Adolfo Cattin, custode del Castello. Aggiungo poi che anch’io ho provveduto, essendo arciprete Martino Gomiero,a consolidare il protiro con sottofondazioni in cemento armato, imbracando prima col supporto di un castello metallico le due colonne marmoree che sostengono il soffitto e il coperto. Per quanto invece riguarda il vecchio cimitero della pieve di Santa Giustina, ricordo che la tradizione lo colloca al di là di via del Santuario parallelamente alla navata del duomo, dove attualmente c’è il campo giochi della scuola “Sacro Cuore”. Alcuni, avendo constatato l’esistenza di cisterne sotterranee nel piccolo sagrato lastricato a trachite, ritengono che queste fossero tombe del cimitero posto davanti alla chiesa. Al proposito mi permetto di fare due considerazioni: la prima che un cimitero sul sagrato sarebbe risultato troppo piccolo rispetto alla quantità di fedeli della Pieve che si estendeva su tutta Monselice e zone vicine come Vanzo e Battaglia, la seconda che le cisterne sono troppo grandi per delle tumulazioni singole, come si usa da sempre. Per la convinzione che ho ricavato in anni di esperienze sono certo che quelle cisterne sono opere di contenimento del declivio della Rocca.
Infatti di cisterne ne ho viste e trovate a Monselice sia in zona San Martino, sia nelle zone che salgono il pendio, come vicolo Palladio e vicolo delle Mura. Oggi, per il contenimento di terrapieni, si fanno muri abbastanza sottili con opere di cemento armato, una volta invece dovevano fare o opere di grossissimo spessore, oppure costruire cisterne coperte da archi, che si opponevano agli slittamenti in quanto da sempre l’arco è un’opera statica che dà sicurezza. Completano i lavori all’interno della Chiesa l’intonaco della zoccolatura perimetrale e la sostituzione di tutti i vetri a rullo delle tre absidi. Legati strettamente al Duomo ci sono due fabbricati: la canonica che fa da quinta al sagrato e che ora è scuola elementare privata e la casa del sagrestano che chiude a est il cortiletto interno, posto a sud del duomo, e ora è abitata da un sacerdote in pensione. Quando nel 1949 la canonica fu trasferita al piano, quel grande immobile rimase vuoto in attesa di una soluzione, che avvenne poco dopo. Negli anni 1950, quando iniziò la scuola media dell’obbligo, l’amministrazione comunale prese in affitto dalla parrocchia la canonica come scuola per alcuni anni, finché non furono preparate aule a Ca’ Pisani (durante i lavori di ammodernamento di questa villa furono messi in luce gli affreschi che, dopo il restauro, mostrano gradevoli pitture, anche se abbastanza rovinate dai colpi delle martelline dei muratori per farvi sopra un intonaco a calce bianca). Resa libera la canonica l’arciprete Cerato pensò di usarla come scuola privata. Proprio in quel torno di tempo la congregazione del Sacro Cuore, di origine canadese e con sede italiana a Roma, aveva dovuto chiudere una sua scuola elementare privata ad Abano Terme: così quella scuola venne spostata a Monselice. Le trasformazioni e i restauri della canonica furono eseguiti dalla ditta Andolfo, ma praticamente diretti da fratel Clemente, un canadese fraconfono, uomo vulcanico e instancabile lavoratore con il quale fraternizzai. In pochi mesi fu ottenuta una scuola con accessori e servizi, senza però cambiare la struttura e l’ambientazione originarie. Fratel Clemente rimase a Monselice alcuni anni e lavorò incessantemente da solo per perfezionare sempre più il progetto di scuola attiva. Provvide a creare il campo giochi nell’ex cimitero e riutilizzò le soffitte per ricoveri provvisori di gruppi e scuole della sua congregazione. Per questo riutilizzo della soffitta rifece la scala di legno di accesso e durante quel lavoro trovò, in nicchie ben camuffate, dei reliquiari di fattura modesta ma del settecento, che sono ora nel tesoro del duomo nuovo. Il campo giochi era prima un terrapieno in declivio pieno di cespugli con un basso muro di contenimento lungo via del Santuario. Fratel Clemente lo sistemò al meglio e per rendere orizzontale il terreno costruì un secondo muro parallelo al primo un poco all’interno, ottenendo così un ampio campo giochi cintato di rete metallica e completò poi l’accesso con una scala in sasso e calcestruzzo di cemento. Verso la fine degli anni 60 partecipai alla ristrutturazione della casa dell’ex sacrestano Vettorato, che aveva ambienti molto degradati. La casa è stata tutta ristrutturata senza modificare i muri portanti ed è stato ottenuto un arioso appartamento che subito fu abitato dall’arciprete Cerato quando, nel 1971, andò in pensione e che ora accoglie l’ex parroco di Stanghella.
1. 8 Il Carmelo di Monselice (Monastero di Clausura)
Questo eremo sorse per l’impegno dell’Arciprete del Duomo di Monselice monsignor Angelo Cerato il quale soleva dire che un luogo di ritiro e preghiera era necessario per la comunità dei fedeli, sia come esempio sia come momento di riflessione. Fortunatamente questo suo desiderio incontrò la necessità delle Carmelitane di Ferrara di dover abbandonare il loro convento vecchio, fatiscente e posto in un contesto cittadino dove c’era scarso isolamento. In via S. Biagio c’era una modesta villa veneta, di cui non ricordo il nome, che poco dopo la guerra fu posta in vendita dal proprietario dott. Secco pretore di Monselice. Vi aveva abitato con la famiglia nei tribolati anni 1940- 1946 e poi aveva ottenuto il cambio di sede. Monsignor Cerato la indicò come sede appropriata alla Suore Carmelitane di Ferrara che la acquistarono e la trasformarono in convento. Il restauro fu eseguito dalla ditta Zerbetto, detto Kino Pelegoto, su progetto e direzione del monselicense geometra Franco Scarso. Vi fu costruito anche un oratorio con stalli per le suore di clausura e una navatella per coloro che desiderano partecipare alla vita di quella comunità. Da allora quelle religiose attirano molte persone, anche con iniziative particolari. Per esempio alcuni anni fa fecero arrivare nella loro chiesetta l’urna della francese Santa Teresa di Lisieux: fu un accorrere di fedeli. Anch’io sono andato e ricordo di essere rimasto imbambolato davanti all’urna della Santa sia per devozione, sia perché il corpo venerato era quello di una piccola donna molto giovane. Per ricordare meglio questo eremo di Carmelitane Scalze, ritengo utile trascrivere un articolo della Difesa del Popolo del 6 maggio 2001,anno in cui fu festeggiato il 50° anniversario della presenza del Carmelo a Monselice: “Era il 3 maggio 1951 e una piccola comunità di Carmelitane fece il suo ingresso a Monselice in via S. Biagio: da allora la città della Rocca si è arricchita della loro presenza fatta di preghiera e capacità di ascolto. Arrivarono il 3 maggio 1951, dopo aver lasciato il vecchio monastero di Ferrara dove, nel 1844, l’arcivescovo Ignazio Cadolini aveva fondato la loro comunità, soppressa per cause politiche dal 1865 al 1870 e ancora dal 1899 al 1901. Le carmelitane scalze giunsero a Monselice, accolte dal vescovo Girolamo Bortignon e dall’arciprete Angelo Cerato. Il cinquantenario del Carmelo a Monselice sarà solennemente ricordato il 27 maggio 2001 con la celebrazione di una S. Messa presieduta dal preposto generale dei Carmelitani Scalzi padre Camillo Maccise, alla presenza del vicario padre Flavio Caloi e di numerosi sacerdoti legati alla comunità. Attualmente le monache sono tredici, di cui una è professa di voti semplici. La vita è totalmente contemplativa, per cui la maggior parte della giornata è dedicata alla preghiera.
Tuttavia anche il lavoro trova un posto considerevole nel sistema carmelitano. Innanzitutto la manutenzione della casa e l’adempimento dei vari uffici domestici: la sacrestia, la portineria, la cucina, la sartoria…La sorella più anziana, 87 anni, si dedica ancora, con qualche aiuto, alle api che producono ottimo miele per la comunità. – Abbiamo dovuto rinunciare da tempo a lavori impegnativi di ricamo su commissione, precisa la priora suor Emanuela della Madre di Dio, mentre qualche sorella è esperta all’uncinetto e al chiacchierino. Inoltre ci prestiamo a lavare e stirare la biancheria di qualche parrocchia vicina – Secondo la riforma voluta da santa Teresa di Gesù i pilastri della vita delle carmelitane scalze sono l’orazione, la clausura, il silenzio, la solitudine. – L’orazione, prosegue la priora, è intesa come segno di amicizia con Dio e consiste non nel molto pensare, ma nel molto amare. La clausura non è un fine ma un mezzo, è separarsi dal mondo per ritrovarsi nel mondo come presenza silenziosa ma quanto mai viva e reale. Infine la solitudine non è isolamento ma ricerca di un incontro continuo, da solo a solo, con Dio, abilitando i singoli membri delle comunità a una profonda vita fraterna fatta di relazioni vissute nella semplicità -”.
1.9 La chiesa di Santa Rosa
Questa chiesa, situata nel centro storico di Monselice in via Buggiani, è graziosa e accogliente. E’ anche frequentata dai fedeli perché in essa viene esposta l’Eucarestia per l’adorazione perpetua. La sua storia, iniziata nella seconda metà del 1600 ha circa 350 anni, come si può rilevare dall’architettura. A pagina 578 di “Monselice”, volume miscellaneo edito nel 1994 per iniziativa dell’Amministrazione Comunale, Chiara Ceschi precisa che questa chiesa, chiamata anche del Santissimo Rosario, fu costruita tra il 1640 e il 1676 unitamente a un convento. Riporto quanto è scritto: “Quel complesso nacque lungo il lato sud delle mura di Monselice per un lascito dei nobili Gradenigo alle terziarie Domenicane. Dalla stima del perito Guarnieri (Demanio delle corporazioni soppresse dell’archivio di stato di Padova) si comprende che la struttura del convento è molto articolata con due refettori, due parlatoi, un sottoportico a dieci arcate, da cui si accede all’oratorio in comunicazione anche con la chiesa. Questa, dalla facciata suddivisa da ‘quattro pilastrini con Basi, Capitelli di Macigno, e gli ornati di cotto’, è a navata unica con pronao ‘sostenente il superior Coro’, soffitto a cassettoni e tre altari in marmi vari”. Controllando i rilievi topografici del catasto austriaco del 1833, si nota chiaramente quanto precisa il perito Guarnieri. La facciata era sulla via comunale detta Carpanedo, ora Buggiani, mentre gli altri fabbricati si estendevano verso l’attuale piazzale Vittoria, in un’ampia zona a verde agricolo. Lo storico Andrea Gloria ne: “Il territorio padovano illustrato” del 1862, a pagina 148 del III° volume precisa sull’argomento quanto segue: “Elegante tempietto è quello di Santa Rosa che serba tante reliquie e spettava alle terziarie domenicane che finirono in questo secolo”. Era d’uso che, quando le confraternite come quella delle terziarie domenicane cessavano, le proprietà andavano al demanio pubblico che sovente dava alle parrocchie le chiese e gli oratori e vendeva ai privati il restante. La parte maggiore a sud-ovest col convento ed il sottoportico arrivò alla famiglia Tortorini, la chiesa di Santa Rosa alla Pieve di Santa Giustina, la zona minore posta a nord alla famiglia Buggiani. Subito in tutti questi edifici cominciarono a crearsi delle laboriose trasformazioni, tanto che nel 1865 le suore “Sorelle della Misericordia di Verona” aprirono una scuola elementare femminile in un grande stabile, inesistente nel catasto del 1833, addossato a nord alla chiesa di Santa Rosa e con facciata allineata a quella della chiesa stessa. Guardando ora solamente la chiesa, sono evidenti le varie trasformazioni avvenute nel tempo. Confrontando la mappa del catasto austriaco, si vede che a sud verso la strada era attaccato alla chiesa un piccolo fabbricato, ora demolito, che doveva essere l’oratorio di cui parla il perito Guarnieri. Infatti su quel tratto di parete, una volta divisorio a sud tra l’oratorio e la chiesa, è ancora visibile la chiusura del foro-porta che serviva di collegamento. Considerando lo stato d’essere il pronao in quel tempo doveva essere chiuso da muratura anche sul lato nord, perché quella parete, che io ho visto negli anni 60 priva di intonaco, non aveva segni di murature aggiunte. Il pronao pertanto doveva essere aperto solo sul davanti. Infatti la muratura di base della facciata sotto la metopa (fascia con rilievi e listelli posta in corrispondenza della cantoria rialzata) dimostra di essere stata costruita posteriormente rispetto al resto, specie per le opere di marmo. La muratura poggia su blocchi di trachite non riscontrabili altrove; il portale è sicuramente opera del tardo ottocento, se non addirittura del primo novecento. Ha infatti incise le parole italiane: “Indulgenza plenaria quotidiana”, mentre in tutte le chiese fino al settecento le scritte erano latine. Le due colonne di marmo bianco all’interno della chiesa, che ora sostengono il solaio della cantoria, a mio giudizio prima dovevano essere nella facciata per formare il portico. Costruita la facciata interamente e tolte le colonne, queste sostituirono il muro di fondale del pronao, muro che nel contempo delimitava la navata e sosteneva la cantoria. Che le due colonne siano di recupero, cioè riusate, lo dimostra lo zoccolo di trachite sproporzionato rispetto al fusto della colonna stessa. Quelle basi sono certamente un adattamento per portare i sostegni all’altezza necessaria. Tutti gli altari e le altre opere di marmo invece sono ancora come li aveva descritti il Guarnieri e successivamente don Giacomo Ferretto, canonico della collegiata, nel 1815. Certamente le suore, che vivevano vicino alla chiesa dalla fine dell’ottocento e ne erano diventate le custodi, si sono adoperate per ingentilirla con altre opere, come le vetrate istoriate e i quadri aggiunti. Anche il campanile non esisteva nella mappa del 1833 sul fianco della chiesa a sud, in corrispondenza della sacrestia, dov’è adesso. Ritengo che sia stato costruito dalla parrocchia di santa Giustina appena ricevuta la chiesa in proprietà.
Da quando nel 1938 ho cominciato a vedere questa chiesa ho sempre riscontrato che il soffitto era piano con una guscia d’imposta e con una piccola decorazione centrale. Evidentemente i cassettoni descritti dal Guarnieri sono stati demoliti nell’800 o nel primo 900. Nel secolo scorso, negli anni 60, la chiesa subì delle trasformazioni soprattutto per adattarla come luogo di preghiera all’Eucarestia. Era parroco monsignor Cerato che, pur essendo preso dall’attività edificatoria parrocchiale, era anche convinto che occorreva un sostentamento spirituale continuo. Si adoperò prima per il Carmelo già ricordato, poi per l’Adorazione Perpetua. Constatato che i fabbricati addossati alla chiesa di Santa Rosa erano stati demoliti, avendo così a disposizione una bella chiesa isolata e nel centro cittadino, pensò di trasformarla in luogo di preghiera. Per aumentarne la capienza ritenne necessario eliminare le predelle, con i relativi gradini, dei due altari laterali perché troppo invasive, in modo da poter aggiungere altri tre banchi per parte. Io ebbi l’occasione di seguire questi lavori e posso precisare come si sono sviluppati. I due altari laterali avevano, oltre alla predella, anche cinque gradini di marmo ciascuno, che si protendevano verso il centro della navata. In aggiunta vi erano due inginocchiatoi di legno di due metri e mezzo con in centro un ampio arco. Constatato che i due altari avevano le are di mattoni intonacati e i paliotti di tela ricamata, tesa su un telaio di legno, altari e paliotti furono eliminati senza ripensamenti. Il tutto fu finito con intonaco, mentre nei pavimenti furono posti in opera quadrotti di marmo simili agli esistenti. E poi fu completata la zoccolatura di marmo della chiesa dove mancava. Furono eseguiti anche gli impianti tecnologici di riscaldamento e illuminazione per rendere l’ambiente accogliente d’inverno e anche di sera. Alla fine l’arciprete ordinò la tinteggiatura totale e le decorazioni di tutti i bordi delle modanature, dato che la chiesa allora era spoglia. L’esecutore fu un artigiano sulla sessantina abile nelle decorazioni. Usò anche fogli d’oro zecchino per certi bordi che dovevano dividere tinte o festoni fra loro. All’esterno fece in rilievo un grande ostensorio bianco, in alto al centro della facciata sopra una finestra chiusa con l’intonaco. La chiesa, dopo oltre quarant’anni dai lavori sopra descritti, ha bisogno di ampi restauri.
Capitolo 2
Oratori esistenti nel dopoguerra
2.1 San Giovanni Battista, via Marco Santarello
Proprio di fronte a Ca’ Duodo, al civico 13, restaurata alla fine degli anni 80, esisteva l’oratorio di San Giovanni, molto degradato e di proprietà privata. Per lunghi anni il proprietario, un certo Simonetti che viveva lontano da Monselice, non si interessò dell’edificio, posto tra due corpi di fabbrica, che andò totalmente in rovina creando pericoli, tanto che la pubblica amministrazione chiuse l’entrata con un muro. Negli anni 90 un confinante acquistò con atto giudiziario l’oratorio decidendo di restaurarlo per uso abitazione. La Soprintendenza ai monumenti interessata permise che l’altare di marmo, l’unico reperto rimasto, fosse traslato nella chiesa di San Giacomo di Monselice ove si trova nella prima cappella a sinistra, poi diede il benestare per il restauro e l’uso privato. Chiese però che venissero ripristinate la paraste con i capitelli e che il volume rimanesse intatto, dando però la possibilità di fare un soppalco di legno e di usare il tutto come soggiorno. Ora all’esterno ci sono il portale di trachite, un finestrone a mezza luna e il foro porta chiuso da una inferriata con losanghe incatenate simile a quelle della facciata di Ca’ Duodo che sono del 500.
2.2 Cappella di santa Eurosia, via Solana
In via Solana, ad est del Montericco dal passaggio a livello di via San Vio fino alla Costa, esisteva a metà percorso una cappella che restringeva di molto la sede stradale proprio in una semicurva. La chiesuola di proprietà privata,che io ho visitato solamente una volta, era formata da una navatella con una piccola sacrestia. Essa era dedicata a santa Eurosia che il popolo montericano chiamava santa Rosa, protettrice dalle tempeste. La chiesa era di modesta e semplice fattura ed è probabile che fosse il risultato dei rimaneggiamenti di una vecchia edicola medievale di cui però non c’era più nessuna traccia. Penso a questo perché in antico ai piedi del Montericco c’erano edicole di santa Eurosia, venerata come protettrice dei raccolti agricoli, ed è probabile che là ve ne fosse una che poi fu ampliata mantenendo sempre l’intitolazione alla Santa. Nel secolo scorso la cappella era tenuta aperta solo per i fioretti del mese di maggio ed era sotto la custodia della Chiesa di san Paolo. Negli anni Settanta, quando la cementeria cominciò a lavorare a pieno regime, via Solana divenne molto trafficata perché di lì passavano tutti i camion dei rifornimenti che trasportavano nella cementeria la marna estratta dal Montericco in zona di Arquà. Vi furono vari incidenti anche mortali e così la provincia, proprietaria della strada, decise di sistemarla in modo radicale, abbattendo la chiesuola e allargando la sede stradale. Il caso volle che, poco prima della demolizione, là venisse travolto e ucciso da un camion proprio il proprietario della chiesetta che era un abitante di Arquà Petrarca.
2.3 Cappella di villa Nani, via del Santuario
All’inizio dell’ultima guerra la grande villa era disabitata, spogliata di ogni arredo, mentre le opere d’arte erano state vendute dal proprietario.Allora venne presa in affitto dalla Galileo di Battaglia Terme per alloggiarvi delle maestranze provenienti da Firenze, che era esposta a continui bombardamenti, e trasferite qui per incrementare la produzione a Battaglia. Successivamente però la villa divenne anche ricovero provvisorio di monselicensi quando nel 1945 gli aerei bombardarono la nostra città. Per questi motivi quel grande fabbricato subì all’interno parecchie suddivisioni delle varie sale, per avere piccole stanze e corridoi di disbrigo. Questo successe anche per la cappella gentilizia situata tra il monte e la villa. Essa aveva un portale di trachite con sopra un oblò e all’interno un solo altare, perché tutto il resto era stato disperso. Finita la guerra la villa a poco a poco fu liberata dagli sfollati e infine fu ristrutturata da Benito Veronese che ne ricavò appartamenti di lusso poi rivenduti. Della cappella rimase il volume vuoto e restaurato.
2.4 Cappella di villa Corner, via ex Corner
Prima che negli anni trenta venissero costruite le vie Marconi e Galilei per realizzare la circonvallazione, variante della statale 16, a est della Rocca si passava per la via Corner, che prendeva il nome dall’omonima villa. Pur essendo stretta e zigzagante, di là passavano i rotabili che percorrevano la statale Padova-Rovigo. Finite le nuove strade, via Corner rimase chiusa e fu sdemanializzata. Il terreno fu diviso in lotti e venduto dopo la guerra ai proprietari delle aree antistanti, poste tra l’ex villa e la nuova circonvallazione. Nel dopoguerra la famiglia Benito Veronese comprò la villa con parco e cappella. La villa e la cappella furono restaurate, il parco fu usato per l’espansione edilizia. Attualmente la cappella si può vedere, percorrendo via Marconi, in uno spazio a cannocchiale posto fra due case. Io non l’ho mai vista all’interno, presumo sia in buono stato manutentivo. Fino al 2003 si poteva ancora vedere la piastra di marmo di via Corner in una casa all’inizio di via Costa Calcinara. Ora non c’è più perché l’edificio su cui era infissa è stato demolito e sostituito da un condominio. Attualmente ricorda il nome Corner una strada posta tra le vie Carrubio e Rovigana.
2. 5 Le Sette Chiese, via del Santuario
Ebbi la ventura di eseguire per conto del Lions Club di Monselice il restauro delle prime cinque piccole chiese, per la sesta provvide direttamente il dott. Aldo Businaro, per la settima, quella di San Giorgio, fu provveduto dopo. Le opere mirarono alla eliminazione della grande umidità esistente nelle murature addossate alla Rocca, al riordino dei serramenti e del tetto, con pulizia dell’intonaco esterno a marmorino. Sicuramente erano varie decine d’anni che non erano state fatte manutenzioni, perché le riparazioni furono molteplici soprattutto nei tetti e nei pozzi retrostanti che servono per isolare le murature delle chiesette dal terrapieno del declivio collinare. Le chiesette, fino agli anni sessanta, erano salvaguardate dal “Rettore”, un sacerdote che abitava nella casa sopra la rotonda, ora casa Piacentini. La casa fu venduta dall’arciprete Angelo Cerato e il ricavato contribuì alla costruzione del nuovo Duomo. Fra i vari rettori ricordo il famoso don Luigi Gatto, di cui parlerò più estesamente, il professore Francesco Ronchi, che ebbi il piacere di conoscere prima della guerra, e l’ultimo don Martino Tagliapietra che ristampò le varie preghiere per ogni stazione delle sette chiese. Attualmente il Lions Club di Monselice sta restaurando gli affreschi della chiesa di San Giorgio. Negli anni addietro però aveva provveduto anche al ripristino delle tele e al restauro architettonico della chiesa di San Giorgio. Per maggiori chiarimenti rimando al geometra Franco Scarso, segretario del Lions Club di Monselice, il quale ha formato una documentazione fotografica e storica di tutti i lavori fatti dal Lions nel complesso delle sette chiese.
Capitolo 3
Duomo Nuovo “S. Giuseppe Artigiano”
3.1 Iter progettuale
Come precedentemente detto la progettazione del duomo fu lunga e tormentata, essa è passata per tre momenti iniziati nel 1947 e finiti nel 1955. Col primo progettista furono costruite la grande cripta sottocoro e l’ampia canonica. Dette opere furono eseguite col metodo tradizionale della zona dei colli Euganei fino alla seconda guerra mondiale, cioè sassi e mattoni legati con malta di calce aerea, costruendo muri di grosso spessore. Ricordo bene che le fondazioni e i muri della cripta furono costruite con brooto, cioè calce aerea calda messa subito in opera con la badila, con sassi di trachite un po’ squadrati messi in opera dai muratori e legati ogni 80 centimetri con mattoni fatti a mano. Il solaio della cripta in laterocemento è sostenuto da colonne marmoree poste a quadrato e unite con archi abbassati di mattoni. Quelle colonne provenivano da una stalla gentilizia del 1500, demolita subito dopo la guerra. I mattoni e i fregi di laterizio degli archi furono espressamente preparati da una fornace di Villaverla. I pulvini di raccordo, cioè i blocchi fra gli archi, furono costruiti in sito con calcestruzzo di cemento, così pure gli zoccoli di base delle colonne che furono rivestiti poi con lastre di marmo nero. Un piccolo particolare che riguarda le colonne. Ne furono acquistate due in più e furono usate per dei capitelli.
Una servì da edicola nell’incrocio tra via Arzerdimezzo e via Galeno, l’altra è nell’aiuola a fianco del duomo nuovo. L’ingegnere Rizzo, prima di ammalarsi gravemente e di ritirarsi dall’incarico, presentò all’arciprete nel 1949 due schizzi assonometrici che illustravano come egli aveva pensato la chiesa in stile neogotico, con muri di sasso trachitico squadrato fuori opera. Mancavano invece totalmente le tavole dei disegni esecutivi per cui non si poterono iniziare i lavori. Poi vi fu la parentesi dell’Angelicum di Milano che non diede risultati, perché le proposte dei tecnici di quell’istituto erano troppo diverse dai desideri dell’arciprete Cerato e della curia vescovile di Padova. Io accompagnai l’arciprete Cerato a Milano, per visionare i disegni di massima preparati dall’Angelicum: erano però totalmente diversi da quelli allora abituali nelle nostre zone venete. Erano opere tutte in cemento armato che davano la possibilità di ottenere forme al di fuori di ogni schema tradizionale e avevano una capienza modesta. Questa proposta fu scartata sia dall’arciprete che dalla curia di Padova. Si arrivò così alla terza fase, iniziata con due progettisti e un architetto disegnatore, il quale divenne alla fine il solo progettista definitivo. In pratica furono mantenute solamente due idee iniziali: la costruzione di dodici grandi finestrate e di dodici porte interne a ricordo degli apostoli, e la distribuzione in vari luoghi di triangoli isosceli allungati simbolo delle mani giunte dei fedeli.
3.2 Metodo costruttivo
Il giovane architetto progettista usò il cemento armato che ormai rapidamente era subentrato al metodo tradizionale dei muri con sassi, mattoni e archi. Ai quattro angoli del transetto furono costruiti degli enormi pilastri con un metro di lato e con un plinto di base di circa settanta metri cubi, poi per la cripta sottochiesa fu eseguita la perimetrazione in calcestruzzo di cemento armato. Costruito il solaio in laterocemento, sostenuto da colonne ad architravi, fu innestata una intelaiatura di cemento armato con colonne e cordoli. Negli interspazi e sopra le opere in calcestruzzo del telaio strutturale furono costruiti paramenti, cioè murature non portanti, con mattoni a faccia vista. Per questo oggi il telaio è invisibile, esclusi solamente quei tratti di cordoli passanti nei vani dei finestroni. Per la precisione devo aggiungere che le opere interne di base, per intenderci quelle che dal pavimento arrivano al grande fascione, furono a suo tempo lasciate al grezzo perché dovevano essere rivestite con opere aggiuntive. Recentemente invece queste ultime parti furono intonacate senza nessuna opera di completamento. Siccome questi lavori hanno creato incertezze e critiche, dovute anche al fatto che il progettista non ha lasciato tracce scritte di come abbellire e completare il duomo, mi riprometto di parlarne diffusamente più avanti.
3.3 Fase esecutiva
Sembra che nell’archivio parrocchiale non esistano disegni e documentazioni relativi ai lavori del duomo e del patronato, così io che ho seguito passo passo il sorgere di quelle opere cercherò di chiarire riordinando i miei ricordi. Si era appena usciti dalla guerra e il fervore della ricostruzione era così intenso da correre molto più veloce della promulgazione di leggi e regolamenti. A Monselice erano allora in vigore disposizioni per l’edilizia promulgate nel 1929, racchiuse nel “Regolamento della Commissione di edilizia e ornato”, che davano pochissime prescrizioni per cui tutto era lasciato alla buona volontà dei cittadini. Fra queste larghissime maglie passarono i lavori del Duomo e del patronato senza controlli né del Comune, né del Genio Civile; così non vi fu bisogno di disegni esplicativi con numerose tavole come si è obbligati a fare oggi. Gli unici disegni necessari furono quelli richiesti dalla Commissione diocesana d’arte sacra quando diede il suo imprimatur. Il Duomo e il patronato non furono poi costruiti da un’impresa privata, ma se ne incaricò direttamente monsignor Cerato costituendo, per questo scopo, una ditta denominata “Fabbriceria duomo nuovo Monselice, lavori edili in economia”. Di questa l’unico responsabile legale fu l’arciprete, che operò direttamentenegli acquisti dei materiali e per pagamenti e assicurazioni sociali delle maestranze. Il progettista e direttore dei lavori fu l’architetto Valentino Bonato, che era anche il consulente dei costi e che ha fornito pure tutti i calcoli delle opere in cemento armato, esclusi il soffitto e il tetto. Nella realtà il vero calcolatore fu l’ingegnere Ferraro della omonima impresa che aveva allora costruito “Villa Immacolata”.
Il calcolatore e il fornitore dei solai in laterocemento fu l’ingegnere. Giobatta Menini di Padova, concessionario della ditta R.D.B. di Piacenza. Il capocantiere fu il geometra. Gianantonio Greggio, abitante a Monselice in via Martiri della libertà, il caposquadra operai fu Baldassare Gusella, morto più che centenario, il responsabile operativo fu l’impresario Massimiliano Andolfo, morto nel 1971. Non tutti i lavori però furono eseguiti in diretta economia, alcuni furono appaltati a ditte specializzate che poi rilasciarono regolare fattura. L’escavo terra fu eseguito dall’impresa Furlan di Pozzonovo, il soffitto e il tetto del duomo furono calcolati ed eseguiti dalla ditta dell’ingegnere Sartori di Padova concessionaria delle travi Varese, la lattoneria fu fatta dalla ditta Pietro Regazzoni di Monselice, gli impianti elettrici dall’impresa Cesare Varotto, gli impianti igienici e di riscaldamento da una ditta di Padova, così pure tutte le opere di ferro comprese le finestrate con vetro retinato. Per avere poi lo schema completo e preciso dei costi di ciascuna opera, onde avere una chiara visione tra le entrate e le uscite, è stato scelto il sistema contabile comunemente usato dagli enti pubblici per i lavori edili, cioè il “libretto misura” con descrizione e misure specifiche di ogni opera e il “registro di contabilità”, con costi unitari moltiplicati per le quantità. Da tutto questo si otteneva la sommatoria precisa di quanto e di dove venivano spesi i soldi. I costi unitari venivano stabiliti di volta in volta di comune accordo tra monsignor Cerato, committente, il responsabile esecutivo Andolfo e il direttore dei lavori Bonato, tenendo conto delle spese reali e della quantità dei lavori eseguiti. Le spese reali, che erano sempre tutte anticipate dall’Andolfo, erano costituite da fatturazioni dei materiali impiegati, paghe operai e relativi oneri e da una piccola percentuale comprendente gli interessi passivi e il nolo delle attrezzature e macchinari vari usati, che erano di proprietà dell’Andolfo. Con tale meccanismo furono eliminati il guadagno dell’impresa e le relative tasse. Per tutto questo monsignor Cerato fu sempre grato a Massimiliano Andolfo, il quale, nella lapide ricordo all’entrata della chiesa, è posto tra i benefattori con la moglie Gemma Suman, sia per la rinuncia ai guadagni sui lavori, sia perché i coniugi fecero anche cospicue offerte. Tutte le misurazioni e i relativi calcoli venivano eseguiti dal capo cantiere geom. Greggio che, compilata ogni documentazione, la portava poi periodicamente nello studio dell’architetto a Padova per il controllo finale.
Nelle ricerche di mercato per le forniture spesso era decisiva la scelta che faceva l’arciprete, l’esempio più importante è quello relativo al soffitto, al tetto al tamburo con guglia del duomo. L’arch. Bonato chiese a ditte di Padova, specializzate in lavori in cemento armato, un preventivo completo della fornitura di materiali, compreso anche il calcolo dei cementi armati, della loro costruzione e posa in opera per dare i lavori finiti. Risposero due ditte: la R.D.B. di Piacenza e la Travi Varese di Padova. L’ing. Menini, rappresentante della R.D.B. propose dei solai continui in laterocemento, rinforzati da strutture in cemento armato, detti a spessore; l’ing. Sartori, della Travi Varese, propose invece dei solai formati da travi in calcestruzzo, distanziate fra loro e unite da un tavellonato leggero. Il costo dei solai a spessore era di parecchio superiore a quello delle travi Varese per cui l’arciprete, soppesando solo i costi perché di soldi ce n’erano sempre pochi, scelse la soluzione Varese, che poi mostrò deficienze di isolamento caldo-freddo e insonorizzazione, problemi che ora angustiano e non poco.
Per quanto riguarda i disegni delle opere, posso precisare che agli esecutori dei lavori furono dati solamente una tavola necessaria per tracciare e tanti fogli volanti con gli schizzi per i vari lavori di completamento. Questi disegni durante i lavori furono perduti o stracciati quando non servivano più. Ritengo che a Monselice nessuno abbia mai visto le tavole complete dei disegni del duomo e del patronato e che in canonica esistano solamente la pianta e l’assometria del duomo, che sono esposte nella saletta del piano rialzato, disegni consegnati però alla fine dei lavori. Oggi penso che la mancanza dei disegni non sia stata fortuita, ma una scelta perché, se vi fossero stati dei disegni, questi avrebbero dovuto essere esposti al giudizio dei fedeli ottenendo dissensi, critiche e generando malumore, come si verificò alla fine. Tanto è vero che qualcuno preferì frequentare le chiese di San Giacomo o delle frazioni per dimostrare all’arciprete la contrarietà verso quel duomo voluto da pochi, costruito sulla strada e di fattura discutibile. Per quanto riguarda invece le documentazioni delle spese, ritengo che si trovino in qualche angolo della cantina perché furono messe là alla rinfusa da alcuni operai, quando l’archivio parrocchiale fu sfoltito dall’arciprete Cerato. Invece il libro matricola operai è rimasto presso la ditta Andolfo per il disbrigo delle certificazioni riguardanti i lavoratori. Posizionamento del duomo e del patronato Visto come sono stati organizzati i lavori, ora preciserò perché la nuova chiesa è così addossata alla strada. Quando monsignor Cerato iniziò i lavori della cripta sottocoro secondo il progetto dell’ingegnere Rizzo, subito si vide l’opportunità e l’utilità di acquisire gli immobili di proprietà privata posti tra l’ex patronato San Sabino e le vie Garibaldi, Barilan e Carrubbio, dove ora si trovano il patronato, la sala, la piastra e la casa dei signori Ferro. Infatti solo così si poteva arretrare il duomo verso via Barilan e ottenere uno spazioso sagrato sulle vie Cadorna e Garibaldi. La casa dei signori Ferro una volta era proprietà comunale e vi erano allogate la caserma dei carabinieri e l’abitazione del maresciallo comandante. Il Comune, richiesto di cedere lo stabile, acconsentì, con la precisazione che prima si doveva trovare un luogo diverso per caserma e abitazione del comandante. L’altra proprietà era invece della famiglia Antonio Zecchin che tergiversò per vari anni. Monsignor Cerato, spinto dalla pressione del Vescovo e dalla voglia di fare a qualsiasi costo la cripta sottocoro, decise di iniziare i lavori solo nella proprietà del patronato S. Sabino. Quando l’opera cominciò a evidenziare la sua grandezza il signor Zecchin, uomo mite e religiosissimo, intuendo che il duomo sarebbe arrivato troppo avanti verso l’incrocio stradale, accettò di stipulare con la parrocchia un preliminare di vendita del proprio immobile, situato nelle vie Barilan e Carrubbio, ricevendo la caparra di un milione.
Per varie difficoltà sorte improvvisamente nella famiglia del proprietario, l’accordo non ancora pubblico fu rescisso con la sola restituzione dell’acconto. Così i lavori progettati proseguirono creando delle condizioni che poi non furono più cambiate, nonostante il terreno Zecchin e la caserma siano stati ceduti nel 1951, quando ormai cripta e canonica erano già costruite. A proposito di tutto questo mi sia permesso fare una considerazione che dà continuità a quanto ho adombrato nella pagina precedente. Ritengo che il fatto sia sorto perché non fu mai portato a conoscenza dei fedeli un chiaro e specifico programma costruttivo della chiesa e delle opere parrocchiali. Era allora prassi abbastanza diffusa che il prete decidesse da solo, o al massimo con il parere dei pochi fabbricieri, quali e come fossero le opere da realizzare. Forse per giustificarsi l’arciprete ripeteva che lui lavorava per il bene della parrocchia e per la gloria di Dio! E ancora che le chiese non si fanno con le chiacchiere dei ricchi, ma con i sacrifici dei poveri. Purtroppo anche oggi succede che il Popolo di Dio venga informato o sia richiesto di un parere quando ormai ogni decisione è stata presa da pochi o dal solo parroco, mentre presso il “popolo di Dio” si fa grande propaganda quando necessitano le offerte per pagare i debiti! La mia lunga esperienza di vita mi ha convinto che solo col dialogo tra parroco e fedeli si possono ottenere forti consensi e offerte sostanziose per costruire chiese ricche di dignità a gloria di Dio. Mentre succedevano i contrattempi sull’acquisizione delle proprietà adiacenti al vecchio patronato San Sabino, monsignor Cerato aveva dato mandato all’architetto Valentino Bonato di preparare il progetto del nuovo patronato, da costruire in via Ghiacciaia nel terreno gravato da enfiteusi, avendo verbalmente concordato con l’enfiteuta che gli sarebbe stato assegnato in proprietà tanto terreno quanto era necessario per il patronato. In quel torno di tempo gli immobili delle proprietà prospicienti le vie Barilan e Carrubbio poterono essere acquistati dalla parrocchia. Era il 1952. Sorse allora un groviglio di problemi: dare ampio spazio al duomo nuovo? Costruire il patronato in via Ghiacciaia e demolire quanto fino allora costruito? Oppure mantenere cripta e canonica già funzionanti, accorpando attorno a loro chiesa e opere parrocchiali? In quell’occasione, ricordo, l’arciprete Cerato disse a me e a qualche altro che doveva prendersi almeno un mese per decidere e concordare con la curia di Padova. Alla fine la cripta e la canonica furono mantenute e iniziò la costruzione del patronato nei terreni di nuova acquisizione. Le ragioni che il parroco mi espose furono: “Cosa avrebbero detto i fedeli se avessero visto abbattere opere appena costruite?” E ancora: “Dove si sarebbero potuti spostare in via provvisoria il centro del culto e le abitazioni dei sacerdoti, dato che chiese e canoniche erano in via di smantellamento?” Resta però il fatto che i fedeli non furono interpellati e neppure informati e non ci fu nessuna ricerca tecnica di eventuali soluzioni provvisorie. Cominciò allora a formarsi in me la convinzione che i parroci dovrebbero sempre dialogare con i fedeli sugli aspetti materiali che interessano le parrocchie. Subito dopo questi fatti la caserma dei carabinieri fu spostata e l’edificio venduto alla parrocchia, anche se ormai non era più necessario, per questo fu ceduto in affitto al sacrestano. Completato il rustico del patronato fu dato inizio al duomo nuovo che fu reso funzionale in modo spartano, lasciando ai posteri gli oneri del completamento e dell’abbellimento. Infatti alcune opere importanti per l’agibilità del duomo stesso non furono eseguite per mancanza di fondi; ora si è fatto l’occhio e l’abitudine alla loro assenza, però, dopo quasi cinquant’anni, è opportuno richiamarle all’attenzione di tutti per studiare soluzioni definitive.
3.4 Finiture del duomo
Facendo un bilancio di quanto resta da fare e chiarendo quello che prevedeval’architetto Valentino Bonato sulle finiture del duomo di san Giuseppe Artigiano, raggruppo schematicamente in alcuni punti ciò che direttamente ho udito, tracciando anche degli schizzi per fare precise osservazioni. All’esterno del duomo necessitano le porte laterali di sicurezza e la finitura della facciata tenendo conto che tutte le quattro finestrature, ora quasi prive di ogni ornamento, dovrebbero essere in armonia con quelle di tutto il perimetro. All’interno occorrono opere per migliorare gli isolamenti, l’acustica e gli abbellimenti; nel sottochiesa è necessaria una sistemazione globale per poterla usare in modo duraturo. Alcune di queste opere necessarie sono divenute realtà durante la stesura e le rielaborazioni del presente scritto. Dal mio punto di vista ritengo necessario, come impegno prioritario, lo studio dell’esterno perché questo problema avrà un lungo cammino di fasi progettuali, scelte tecnico-artistiche e iter burocratico dei permessi di Comune, Soprintendenza, Vigili del fuoco, ecc. Il progettista Bonato prevedeva che le porte laterali venissero collegate al pianerottolo antistante la porta principale con due solette in cemento armato a sbalzo. Infatti ai lati del grande pianerottolo esterno erano stati costruiti due tratti di muratura, ciascuno di metri tre, da demolire quando si sarebbero costruite le solette di collegamento. In più erano stati lasciati dei ferri da usare in futuro per le mensole. Invece i ferri furono tagliati nel 1980, mentre nel 2005 furono demoliti i muretti provvisori del pianerottolo con i lavori del nuovo scalone marmoreo.
Al riguardo mi pare di poter dire che la soluzione delle due solette a sbalzo era una proposta modesta e poco pratica. Per questo ritengo migliori due scale laterali; il problema è la loro esecuzione, specie verso il patronato. Il progettista prevedeva poi che le finestrate venissero tamponate all’esterno con triangoli in calcestruzzo a difesa delle invetriate interne istoriate, proprio come quelli parzialmente posti nella facciata. Monsignor Cerato pensò da subito a questo problema e chiese i preventivi dei triangoli e delle vetrate, sperando che l’enfiteuta di via Carrubbio gli permettesse di vendere qualche pezzo di terreno. Costui fu invece irremovibile e così, dato che le spese erano molto alte, non se ne fece nulla. Per questo motivo i fori delle finestrate furono tamponati all’esterno in via provvisoria con vetri retinati, lasciando ai posteri l’onere per i lavori definitivi di rivestimento. Nel 1962, quando nel duomo era già stato predisposto il riscaldamento a pavimento, l’arciprete chiese il progetto per la nuova pavimentazione del duomo in lastre di marmo, ma anche per questo lavoro mancarono i soldi. Riguardo a quest’ultima opera, facendo una comparazione tra il disegno del 1962 e il pavimento attuale, si può constatare che l’esistente è meno elaborato e meno gradevole di quello progettato prima. A mio parere per i lavori sopra esposti occorrerebbe una soluzione innovativa per armonizzare l’accesso delle due porte laterali e della facciata col sagrato, visti insieme nell’ambiente nuovo che circonda la chiesa. Parlare però di facciata vuol dire anche parlare di tutte le finestrate e ciò presenta varie e grosse difficoltà sia per la qualità dei lavori che per i costi. Mi rendo conto che nel discutere il problema dei fori si va a toccare un argomento che susciterà forti perplessità e lunghe diatribe, per il quale io non ho la presunzione di dare soluzioni, però vista l’importanza dell’argomento mi si permetta di dialogare con me stesso per puntualizzare alcuni dati. Attualmente le vetrate istoriate sono poste all’esterno dei fori, cioè dove erano i vetri retinati, ottenendo a mio giudizio situazioni visivamente anomale. Guardandole dall’interno, così incassate in quelle nicchie lunghe e strette, mostrano parecchie zone d’ombra; se invece si guardano dall’esterno, le forme e i colori dei vetri quasi spariscono perché nel retro manca, e forse mancherà per sempre, una fonte fissa di luce; quel poco che rimane da vedere si confonde poi con i paramenti di laterizi. Se si guardano con attenzione le vetrate istoriate delle chiese antiche, ci si accorgerà senz’altro che esse sono totalmente visibili: ciò è dovuto al fatto che esse sono fissate su murature i cui contorni sono lavorati a sguincio, cioè finiti in modo obliquo e non ad angolo retto. Il nostro duomo, come nel nostro caso, non offre nessuna possibilità di fare correzioni murarie per migliorare la vista delle vetrate interne, così tutti quei fori dovrebbero essere completati all’esterno e all’interno da paramenti trasparenti, anche per nascondere un po’ i cordoli e le spalle dei fori che, nel nostro caso, sono stati costruiti così per scelte strutturali piuttosto che architettoniche. C’è infine anche il problema per ora insoluto della coibentazione perché le attuali vetrate, pur costruite a vetrocamera, per cui dovrebbero formare una barriera al caldo e al freddo, in realtà si sono fessurate e rotte qua e là per gli sbalzi termici dovuti alla veloce dilatazione del piombo che lega i vetri, per cui si può dire in modo certo che esse non sono adatte a un efficace isolamento. Prima che si rovinino irreparabilmente col tempo, sarà opportuno portarle all’interno, creando nel contempo una camera di compensazione termica verso l’esterno con un’altra vetrata magari monocromatica. Tutto ciò però dovrà essere studiato da specialisti che diano soluzioni valide e artisticamente gradevoli. Per ottenere questo penso che la parrocchia dovrebbe lanciare un concorso di idee per la risistemazione esterna, offrendo compensi che attirino gli artisti e i tecnici migliori a parteciparvi. Uno studio da non tralasciare, secondo me, è poi quello degli isolamenti termici e acustici riguardanti le strutture orizzontali e verticali, tenendo conto che il problema dovrebbe essere studiato nel suo insieme anche da uno strutturista, cioè da un ingegnere che controlli lo stato d’essere delle opere in cemento armato e che, eventualmente, ricalcoli le portanze in base alle eventuali aggiunte di pesi. Di lunghissima e faticosa realizzazione poi saranno gli abbellimenti parietali interni. Penso che anche per queste opere sarebbe utile un concorso da realizzarsi in tempi lunghi. Mi permetto di dire questo perché, purtroppo, c’è l’abitudine diffusa di fare piccoli passi, o presunti tali, per i lavori necessari senza un coordinamento generale: così spesso si hanno soluzioni disarmoniche e di scarso contenuto. All’interno del duomo, per un’altezza di circa sei metri, vi erano fino a una decina di anni fa varie opere non intonacate che a prima vista potevano sembrare variazioni architettoniche per creare una diversificazione alla linearità di molte superfici.
Erano invece superfici lasciate grezze per indicare che là necessitavano lavori di rivestimento e non di intonaco, come è stato fatto. Le previsioni erano di vari tipi che dovevano essere fusi armonicamente tra loro. Il fascione sporgente circa 12 centimetri con l’intonaco molto grezzo era preparato per ricevere un rivestimento scenografico in mosaico o affresco, per creare un forte impatto artistico-religioso; le grosse colonne d’angolo dovevano essere finite con intonaci a marmorino veneto, cioè quello bianco lisciato con spatola calda, per visualizzare la loro funzione portante. Tutto il resto sotto il fascione doveva essere rivestito con marmi di qualità e colore a contrasto. Le dodici porte interne dovevano essere rivestite nell’intradosso da lastre di marmo di cinque centimetri, sporgenti da parte a parte rispetto alle superfici laterali. Il riquadro superiore avrebbe dovuto essere finito con motivi artistici, eseguiti con materiali a scelta e delimitato da cordoni marmorei simili a quelli delle porte. Le dodici nicchie larghe un metro dovevano essere chiuse con un muro a due teste, cioè di centimetri ventisei, per sostenere un rivestimento marmoreo che si distinguesse però da quello delle colonne di cemento armato costruite ai lati in modo da far risaltare la struttura portante. Le nicchie non erano state chiuse per lasciare liberi gli esecutori sulle sporgenze o rientranze e sugli spessori delle lastre di rivestimento, ma anche per dare la opportunità di costruire nicchie per eventuali statue. Le nicchie larghe settantacinque centimetri dovevano essere completate con un muro a una testa, rivestito da lastre di marmo di colore contrastante col rimanente e non allineate col resto. I tratti di parete larghi centimetri duecentottanta, che attualmente formano l’ipotetico futuro allineamento dei paramenti rivestiti con marmi, erano previsti finiti solamente con un intonaco spatolato di un colore in armonia o in contrasto coi rivestimenti.
3. 5 Le opere in legno
L’architetto Valentino Bonato, oltre alle opere edili, progettò anche tutte le opere in legno sia del duomo che del patronato. Anche questi lavori furono eseguiti in economia sotto la ditta “Fabbriceria del duomo nuovo di Monselice”. Responsabile della costruzione di queste opere fu Guido Crivellaro, ora defunto, che abitava a Monselice in via Avancini. Egli si appassionò tanto a quell’impresa che chiamava storica, da assumersi in proprio e gratuitamente la costruzione delle cornici della “Via Crucis” e infine anche di due inginocchiatoi attualmente davanti agli altari dei due lati del transetto. Furono costruite porte, finestre e anche parecchi banchi in legno di rovere lucidato a tampone. Questi ultimi attualmente sono in duomo vecchio, perché nel duomo nuovo furono sostituiti da altri numerosi banchi di faggio, quando fu costruita la pavimentazione in marmo del duomo. Gli schizzi Come documento, per precisare come erano state pensate le rifiniture, allego otto schizzi in modo da dare una giusta visualizzazione di come e dove andavano fatte. Per capire bene gli schizzi mi permetto di dare delle indicazioni. I primi sei schizzi vanno consultati in coppia: nei numeri dispari si vuol mostrare come erano stati lasciati incompleti i lavori nel 1957, nei numeri pari invece vengono precisate come erano ideate le rifiniture interne. Il settimo schizzo ha due sezioni verticali del muro del transetto, là dove c’è una porta di rovere: a sinistra c’è l’esistente al 1957, a destra quanto era stato progettato per la finitura. Infine nell’ottavo schizzo si riporta solamente come erano state pensate le due pareti di fondo del transetto. Facendo oggi un confronto tra quello che è stato fatto in questi ultimi anni e quanto era previsto si riscontrano delle differenze. Per me la più grossa è la positura delle vetrate istoriate, messe in modo discutibile all’esterno della chiesa, mentre dovevano essere messe all’interno, sia per vederle al meglio, sia per nascondere quei brutti anelli di collegamento la cui visione rompe la invetriata. D’altra parte quei cordoli, come già detto, non hanno scopi architettonici, ma sono stati costruiti per motivi statici di collegamento delle varie colonne. E’ vero che in questo caso all’esterno si sarebbero viste delle occhiaie vistose, ma questo doveva essere studiato prima della ordinazione delle vetrate per trovare una soluzione soddisfacente. La più semplice forse era quella di lasciare temporaneamente i vetri retinati.
Nuovo titolo del duomo Per completare le notizie del nuovo Duomo devo anche ricordare che in questi ultimi anni il nome del titolare della chiesa è stato cambiato in “San Giuseppe Operaio”.
Capitolo 4
Operatori del duomo nuovo
4.1 Massimiliano Andolfo
Del suocero voglio solo evidenziare l’impegno profuso nella costruzione del duomo nuovo, del patronato e di altre opere parrocchiali in comune di Monselice, eseguite da lui soprattutto nel dopoguerra e fino alla morte il 10 gennaio 1971. Era un capomastro che si era fatto da sé e aveva perfezionato la sua professionalità con forte impegno. Prima della grande guerra frequentò i corsi di disegno architettonico del professore Silvio Travaglia, noto pittore monselicense. Poi lavorò per molte parrocchie della bassa padovana sistemando o restaurando edifici religiosi. Gli vidi fare e realizzare il primo disegno nel 1946, quando ero sposato da poco con sua figlia Maria. E’ il capitello triangolare a San Pietro Viminario, alla confluenza di tre strade confinanti tra quel comune e Monselice. Poi fu un susseguirsi di opere un po’ ovunque, ma qui preferisco richiamare quelle fatte a Monselice nel campo ecclesiastico. Prima della seconda guerra mondiale consolidò le fondazioni del campanile di San Giacomo e costruì i campanili di San Cosma e di Monticelli, dove completò la chiesa, dopo che aveva già costruito la canonica. Dal 1946 seguii passo passo ogni suo lavoro in varie parrocchie di Monselice. Cominciò nel 1947 con l’edificazione della grande cripta sottocoro, della canonica e del campanile provvisorio, poi nel 1954 divenne coordinatore disinteressato dei lavori del duomo e del patronato terminati nel 1960. Poi ricominciò con tanti altri lavori che mi limito ad elencare. Negli anni sessanta restaurò totalmente il convento di San Giacomo, costruì il nuovo nucleo parrocchiale del Carmine in via Valli, l’asilo parrocchiale di Monticelli, i soffitti dell’abside della chiesa di San Bortolo, i restauri a San Paolo prima della cessione al Comune, restaurò la sacrestia del duomo di Santa Giustina, trasformò in scuola privata la grande canonica sulla Rocca, ristrutturò la casa del campanaro del duomo vecchio e infine restaurò la chiesa di santa Rita. Fu per me un vero maestro di lavoro e di vita.
4.2 Baldassarre Gusella
Riporto quanto ho scritto, come testimonianza dell’opera di questo grande operatore, nel bollettino di San Giacomo, Camminare insieme: “Ho conosciuto Baldassare poco dopo la guerra quando iniziò a lavorare nell’impresa di Andolfo Massimiliano, della quale allora curavo la parte amministrativa. Con la costruzione della cripta sottocoro del nuovo duomo di Monselice negli anni, 1947-1948 presi gusto anche ad approfondire le mie conoscenze nella tecnica edile. Fu così che cominciai a frequentare “Balda”, come tutti i suoi compagni di lavoro lo chiamavano, e a conoscerne capacità e personalità. Ricordo che il nostro primo vero dialogo fu quando l’arciprete Cerato diede l’ordine di demolire alcuni altari delle chiese dismesse, per trasferirli nella nuova cripta. Andai a vedere i lavori di demolizione dell’altare maggiore dell’ ex chiesa di San Luigi, ora cinema Corallo. Mi soffermai parecchio tempo a vedere come Balda demoliva l’altare e come procedeva per avere poi tutto sottomano nella ricostruzione: con mia meraviglia non faceva schizzi, ma solo segni e qualche numero. Durante il lavoro saltò fuori da una crepa una schedina del lotto degli anni 1880 intitolata a un certo Tosello. Fu così che prese a parlare di quella famiglia. Il titolare della schedina era un capomastro che aveva conosciuto da bambino il cui figlio, pure capomastro, allora già oltre la settantina, finì col dire che era stato il suo maestro. Continuò poi dicendomi che il suo primo vero lavoro importante da muratore fu la costruzione dell’Istituto Poloni negli anni 1926 – 1927. Mi precisò pure che quell’edificio inizialmente era un ospizio per ammalati e che vi erano state predisposte varie opere, onde accelerare l’assistenza per qualsiasi tipo di invalidità, come poi, parecchi anni dopo, ebbi modo di riscontrare quando vi diressi dei restauri. Da quella volta fraternizzammo un po’ raccontandoci a vicenda degli episodi dell’ultima guerra. Balda parlava spesso del suo lavoro di vigile del fuoco volontario e, soprattutto, di quando fu precettato come vigile e inviato presso l’abbazia di Praglia assieme ad altri, per salvaguardare le opere d’arte del monastero. Dormivano in una soffitta ben arredata, il loro cibo era sempre ottimamente confezionato coi prodotti che i monaci benedettini ricavavano dalla coltivazione della loro terra.
Fu per lui un lavoro interessante perché capì come lavoravano nei tempi passati i muratori, i carpentieri e i fabbri, ma fu anche un’oasi di tranquillità, perché non vi furono azioni di guerra. Un lavoro che seguii con grande attenzione, di cui Balda era il responsabile, fu il rifacimento del tetto, del soffitto e dell’altare maggiore della parrocchiale di Ospedaletto Euganeo distrutti da un furioso incendio durante l’inverno. L’impresa Andolfo aveva assunto quel lavoro conoscendone bene le difficoltà, ma consapevole anche della propria esperienza. Balda partiva da Monselice col suo “Motom” e arrivava sul lavoro una mezz’ora prima per controllare preventivamente il da farsi durante tutta la giornata. Fu un lavoro pieno di problemi costruttivi perché si doveva rispettare una rigida regola: bisognava rifare tutto come era prima, senza creare disarmonie con le strutture esistenti. Fu per me una scuola pratica che mi servì per tanti altri lavori di restauro. Quando non capivo chiedevo al responsabile della ditta, ma, se non c’era, ricorrevo al Balda. In quella chiesa il suo capolavoro di muratore specializzato fu il rifacimento di un altare settecentesco che sostituì a quello reso inservibile dal fuoco. Nella chiesa dismessa di San Paolo a Monselice c’era un bell’altare maggiore, un po’ simile a quello esistente in San Martino al Piano di Monselice. Balda lo demolì e ricostruì come al solito senza foto, disegni o schizzi. Egli si fissò tutto bene nella mente e rifece il manufatto con precisione e competenza, tanto che un abile marmista non avrebbe potuto fare di meglio. D’altra parte il Balda sapeva fare di tutto, conosceva le prerogative di tutti i materiali che adoperava: faceva il piastrellista, lo stuccatore, lo scalpellino, il carpentiere, il marmista con la stessa capacità con cui eseguiva muri a faccia vista di mattoni o di sassi di trachite. Nel 1952 posizionò e costruì il campanile provvisorio, ricevendo solo qualche indicazione verbale, perché mancava il progetto del campanile e della chiesa. Nella realtà le uniche direttive le diede a voce il signor Andolfo, forte della propria esperienza nel costruire i campanili di Monticelli e San Cosma. Nella prima metà del 1955 posizionò e iniziò la costruzione del patronato parrocchiale Immacolata di Monselice; in settembre dello stesso anno cominciò poi i lavori della cripta sottochiesa del nuovo duomo di Monselice. Questa grandiosa opera, in cui profuse per due anni tutto se stesso, fu certamente il suo capolavoro di “capomastro” per i suoi controlli minuziosi, per i continui insegnamenti ai giovani o ai più maldestri, per la sua infaticabile presenza con l’essere sempre il primo alla mattina e l’ultimo alla sera a chiusura del lavoro. Finché i lavori furono di grosse quantità ripetitive, per esempio la costruzione di quattro grandi plinti, ognuno dei quali divorò una camionata di duecento quintali di cemento, riuscì a provvedere a tutto da solo; poi, quando le operazioni divennero multiformi e il numerodegli operai crebbe, chiese un aiuto per i controlli. Fu così che entrò in scena il geom. Gianantonio Greggio che lavorò e convisse con Balda in simbiosi. Nel 1961 l’impresa Andolfo assunse il lavoro della ristrutturazione del convento di San Giacomo in Monselice, anche qui il primo fu Balda. I frati subito si accorsero dell’impegno costante che profondeva e così il Balda, quando andò in pensione, passò a prestare la sua preziosa opera dai francescani. Qui fu presente assiduamente per un quarantennio divenendo, non solo nell’immaginario dei parrocchiani di San Giacomo ma anche di tutti i monselicensi, un monumento solenne di volontà, abilità e capacità”.
Capitolo 5
Il patronato San Sabino
Per completare quanto già detto sul duomo di San Giuseppe Artigiano, mi pare giusto e doveroso parlare del luogo dove esso è stato costruito. Non è possibile tralasciare di descrivere e dimenticare la nobile e lunga attività del patronato San Sabino, sacrificato per costruire la nuova chiesa parrocchiale nel centro cittadino. Quel luogo fu per circa trent’anni, dal 1920 al 1950, il centro delle attività socio-culturali di varie generazioni monselicensi. Oltre ad essere un riparto parrocchiale che, assieme a quelli di San Paolo e San Martino, formava la grande parrocchia urbana di Santa Giustina, era anche il centro di molti incontri. Nel patronato si sviluppavano attività ludiche per bambini e ragazzetti e anche per il tempo libero degli adulti, insieme a varie iniziative culturali e religiose perché l’immobile aveva ampi fabbricati e due cortili all’interno: uno per i piccoli e uno per i grandi. Le costruzioni partivano dall’attuale banca di via Cadorna e giravano, ad angolo retto su via Garibaldi, fino alla nuova canonica, compreso il passo carraio ora chiuso e coperto con una terrazza. All’inizio di via Cadorna vi erano alcuni appartamenti, tra cui quello del fruttivendolo Salvagno, detto Bogari, persona simpatica e amata dai giovani, perché era sempre pronto a soddisfare le loro richieste di dolci e frutta, attraverso una finestra che si affacciava nel cortile interno dei piccoli. Nell’angolo delle vie Cadorna e Garibaldi c’era un palazzetto ottocentesco usato per l’entrata generale, per uffici al piano terra e per l’abitazione del cappellano al primo piano. Attaccato a questo su via Garibaldi c’era una lunga fila di fabbricati a un piano: chiesa, sala, aule di dottrina cristiana; il tutto poi finiva con un portone. Nel cortile dei grandi venivano fatte accanite e rumorose partite di calcio tra i “piazaroti e quei de San Martin”. Nei tardi anni venti e nei primi anni trenta sorsero nel patronato San Sabino una filodrammatica di soli uomini e dalle suore di via Tortorini quella di sole donne (allora era in uso così), iniziative che ebbero grandi successi.
In quei tempi io non abitavo a Monselice, ma quando la mia famiglia vi si stabilì nel 1936 i ricordi risuonavano ancora alti e forti. I principali attori ricordati erano: Zilene Franchin, Iseo Forlin, Giacomo Pietrogiovanna, Mario Lucchiari, poi, fra i giovani, Rino Stanco, Loris Zangrossi e Ivone Bezze. Solitamente venivano allestite commedie strappalacrime nelle domeniche di carnevale. Durante l’ultima guerra sorse un’altra compagnia teatrale promossa da alcuni fiorentini sfollati a Monselice. Con la venuta di monsignor Cerato questo gruppo si trasformò in una compagnia mista. I nuovi attori furono Berneschi, Renato dell’Imperatore, Francesco Averini, i fratelli Manfrin, Franco Scarso, Idra Rocca, Bianca Valeri e Delfina Pianizzola. Credo che l’ultimo spettacolo molto lodato sia stato “La passione di Cristo” interpretata da Franco Scarso. Nella sala, fin dai primi anni 20, furono proiettati i film muti che venivano accompagnati con la musica suonata da un pianoforte fornito di schede forate e pieghevoli; poi iniziarono i film parlati. Poco prima dell’ultima guerra, al sabato e alla domenica d’estate, iniziarono le proiezioni cinematografiche all’aperto, nel cortile dei piccoli, luogo sempre pieno. I grandi animatori degli spettacoli cinematografici furono principalmente Francesco Bonaventura e Giovanni Ferrario, aiutati da tanti bravi giovani.
Io ho conosciuto vari cappellani che diressero il Patronato di Monselice. Ne ricordo due che, per motivi diversi, hanno colpito non solo me ma anche tanti fedeli. Don Giovanni Prosdocimi, poi Arciprete di Pernumia, mio coetaneo ora defunto, fu un trascinatore di giovani e soprattutto sempre attento alle opere d’arte. Egli aveva ereditato dai genitori alcune buone e importanti pitture che facevano bella mostra nelle sue residenze prima a Monselice poi nella canonica di Pernumia. In aggiunta anche la sua perpetua Angelina aveva mobili d’arte che arredavano la canonica con i dipinti. Don Prosdocimi non si lasciava fuggire l’occasione se intravedeva qualche opera artistica, la studiava e la valorizzava a vantaggio dei proprietari. Fu così che a Pernumia comperò per la parrocchia una vecchia casa colonica con stalla e fienile. Nelle vecchie carte parrocchiali aveva letto che, all’inizio dell’ottocento, la chiesetta della Santissima Trinità era stata acquistata da un fittavolo che la trasformò in masseria. Interessò la Soprintendenza ai Monumenti che aprì una gara per il restauro. La ditta che dirigevo vinse l’asta e così partecipai al ricupero e alla trasformazione di quell’immobile. Dalla stalla e dal fienile fu ricavata la navata della chiesa, dalla casa di abitazione il presbiterio, il campaniletto mozzato e la sacrestia. L’altro cappellano fu don Aldo Pesavento che divenne poi arciprete a Cittadella, ora defunto. Esercitò il ministero a Monselice nei tempi difficili della guerra. Io lo conobbi all’inizio del conflitto, poi me ne parlò nel dopoguerra mia moglie. Don Aldo lavorò con forte capacità e grande impegno tanto che alla fine si ammalò. Riuscì a compattare tanti giovani attirati dai suoi appassionati discorsi; aiutò gli sbandati della guerra e fu incolpato dai fascisti di essere un partigiano. Fu salvato solamente perché il suo spirito superiore aveva coinvolto anche famiglie fasciste che riuscirono a farlo scagionare. Mia moglie, che visse quelle esperienze, è convinta che la principale difesa fu quella della professoressa Turolla, fascista, e della giovane figlia di Cattani, allora federale di Padova. Arrivati qui gli americani, il primo che arringò la folla festante fu don Aldo Pesavento. Dopo questi ricordi è ancor più doloroso ricordare che nel 1947, quando fu iniziata la costruzione della cripta, in via Cadorna furono abbattute le case per creare il passaggio dei fedeli e in via Garibaldi furono eliminate le aule e il passo carraio per costruire la canonica. Nel 1955, iniziato il duomo, furono abbattuti il palazzotto d’angolo, la chiesetta e la sala. In quell’occasione il Comune comprò una porzione di terreno nell’incrocio per creare un’ampia curva che, qualche anno fa, fu leggermente allargata per costruire una rotonda stradale: ora del patronato San Sabino è sparita ogni traccia.
Capitolo. 6 –
Apparato iconografico a corredo del testo
Figura 1.
Planimetria del centro storico di Monselice, catasto austriaco del 1833 a) Al centro della foto c’è la chiesa di Santa Rosa posta sulla strada allora chiamata “comunale Carpanedo”. A sud ci sono il convento delle Terziarie Domenicane, del terreno agricolo ed un portico di collegamento tra il convento e la chiesa. Soppresso il convento nella seconda metà del 1800, i Tortorini acquistarono il convento, il parco e parte del terreno. Essi trasformarono il convento in villa, il terreno in parco e il portico in stalle e ricovero dei rotabili. Essi usavano come passo carraio il portone di ferro che oggi esiste vicino alla chiesa nel lato sud-est. Nel 1923 l’ultimo della famiglia Tortorini donò l’immobile al Comune di Monselice per uso asilo infantile. Sorse l’Ente “Asilo Tortorini” che governò la scuola infantile fino agli anni 1980. I cittadini preposti alla direzione venivano nominati ogni cinque anni dal Consiglio Comunale. Dopo la seconda guerra mondiale, si verificò la necessità di un ampliamento, per questo negli anni 1953 – 1955 furono abbattute le scuderie e i magazzini ottenendo con la ricostruzione nuove aule moderne. Per questi lavori furono demoliti anche tratti delle mura medievali della città per dar posto ai nuovi ambienti. Ricordo questa cronaca per significare che purtroppo quasi mai si riesce a prevedere il futuro perché, nel nostro caso, a distanza di circa trent’anni l’asilo fu chiuso; cosicché ora manca un pezzo importate delle vestigia della nostra storia civica, essendo cambiata l’organizzazione sociale. b) A sud ovest della mappa c’è la zona dove nel primo 1900 sorse l’ex Patronato Parrocchiale San Sabino e ove oggi sorge il nuovo Duomo.
Figura 2.
Planimetria del centro cittadino di Monselice, rilievi fatti negli ultimi anni ‘50.- a) Al centro della foto c’è la chiesa di Santa Rosa oggi posta su via Buggiani. Controllando si può notare che attorno alla chiesa vi sono stati dei cambiamenti rispetto al catasto precedente, del 1883. b) A nord, è addossata alla chiesa la scuola elementare Buggiani. Parte del fabbricato era usato come dimora delle suore. Oggidì è stato abbattuto e rifatto su via Tortorini. Le suore ora abitano nella Villa Venier sita a est della chiesa, mentre a sud est c’è l’Istituto Poloni sempre delle suore della Misericordia
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Figura 3.
Planimetria esplicativa delle proprietà parrocchiali succedutesi nel tempo attorno al duomo nuovo.
Figura 4.
Planimetria della zona Duomo Nuovo, anno 1960 Si nota a est il Nuovo Patronato Immacolata; A sud est la piastra giochi; Al centro il cortile e a nord, campanile provvisorio
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