Appunti per una storia urbana di Monselice a cura di Massimo Trevisan
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Le origini
Le notizie storiche e le evidenze archeologiche portano a fissare attorno alla fine del VI secolo la fondazione da parte dei bizantini di un castrum sulla sommità della Rocca, a difesa del loro territorio davanti alla progressiva penetrazione dei longobardi in Italia. I dati topografici salienti sono rappresentati dal colle isolato dagli altri Euganei e proteso sulla pianura solcata dall’Adige, e da un corso d’acqua che proviene dal vicentino e tocca il colle ad ovest (con forse un ramo che se ne staccava e lambiva il versante sud per proseguire poi verso Rovigo).
Per intendere meglio lo sviluppo del sito, dopo la conquista longobarda nel 608 e durante la successiva dominazione carolingia è necessario sottolineare subito anche la particolare condizione giuridica di Monselice (che peraltro si mantiene fino alla metà del XIII sec.): essa dipende direttamente dall’ autorità regia, che esercita il potere attraverso suoi emissari di fiducia; ampie porzioni del suo territorio appartengono al fisco regio, cosa che comporterà, in tempi successivi, la cessione da parte di re e nobili della corte di ampi tratti del territorio a istituzioni ecclesiastiche anche molto lontane da Monselice, come il monastero di Nonantola, quello di Santa Giulia a Brescia, quello veneziano di San Zaccaria, quello della Vangadizza di Badia Polesine e poi quello di S. Giustina di Padova.
Urbanisticamente, si sviluppa un abitato “duale” (tavola 1): sulla sommità il castello, che, forse già dalla fine del VI sec., ospita anche la chiesa di S. Giustina; ai piedi del colle e in prossimità della via d’acqua, l’area attorno a S. Paolo (in giallo). Quest’ area, sulla base di scavi archeologici eseguiti negli ultimi decenni, ha rivelato una frequentazione a partire dall’ età del bronzo e confermata anche per i secoli VI-VII. Alla metà dell’ VIII-inizi IX secolo risale la fondazione della chiesa di S. Paolo, forse, suggerisce l’archeologo G.P.Brogiolo, come cappella palatina annessa alla vicina domus pubblica, destinata a svolgere un ruolo simbolico cruciale nella futura storia della città, ma rilevata dai documenti scritti solo a partire dal XI sec. E’ ragionevole pensare esistente l’asse viario di collegamento tra i poli, corrispondente almeno in parte all’attuale via del Santuario.
Secoli X-XI
E’ probabile che alla data qui indicata il castrum comprendesse già i due castelli di S. Pietro e di S. Giorgio, ricordati alla fine del ‘400 sia dal Sanudo che dal vescovo Barozzi (tavola 2). Il primo è stato completamente distrutto dalle cave ma la cartografia ottocentesca ci permette di ricostruirne la forma; del secondo rimangono forse ampi lacerti inglobati nella villa Duodo. L’ abitato comprende un consistente numero di chiese, di cui non va sottovalutata l’ importanza come poli per l’aggregazione e la polarizzazione dello sviluppo urbano. Tra le più importanti, S. Tommaso (914) che è il fulcro di un villaggio e il centro amministrativo di una vasta proprietà del monastero di S. Zaccaria. Ricordiamo S. Martino in valle (970) legato al monastero di S. Giustina, S. Martino nuovo (sec. XII), S. Maria (forse presso una torre non lontana da S. Pietro), Ss. Nazario-Celso-Vittore-Innocenzo (tra S. Paolo e il Duomo vecchio). Anche se nei documenti l’abitato viene indicato complessivamente come Monselice, esso doveva essere formato da nuclei distinti in gran parte non difesi da mura. Ci sono tuttavia attestazioni di una piazza, di un ponte sul fiume (1181), di una porta civitatis (1050), indicatore questo dell’esistenza di una cinta a probabile protezione della parte in cui si concentrava la vita civile della città: S. Paolo con l’adiacente Casa Pubblica.
Oltre alle chiese qui indicate altre sorgono lungo direttrici destinate a segnare le future linee di sviluppo dell’abitato: S. Maria del pilastro e S. Vito verso il Montericco, S. Daniele e S. Giacomo sulla direttrice per Este, S. Salvaro sulla strada per Conselve.
Secolo XIII
La tavola 3 si presenta con qualche cautela essendo frutto di riflessioni che trovano solo parziali riscontri negli studi più recenti su Monselice e che necessitano di ulteriori approfondimenti. Essa rappresenta il tentativo di delineare l’andamento di cinte murarie a protezione della cittadina dopo gli interventi di Federico II, ed è basata sull’osservazione dell’esistente o su quanto emerso da lavori di restauro in tempi recenti. All’intervento dell’ imperatore (o del suo vicario Ezzelino) si attribuisce la realizzazione del mastio sulla cima del colle e di una cinta a protezione dello stesso, cosa che comportò la distruzione di S. Giustina e la sua successiva ricostruzione nell’attuale sito; una tradizione attribuisce a Federico II anche la costruzione della torre civica e, infine, ad una sua iniziativa va ricondotta la realizzazione del corpo cubico dell’ attuale castello Cini. Significativa la posizione scelta per questa struttura residenziale prestigiosa: non nei pressi del mastio come in altre strutture federiciane (Milazzo, Enna) ma sul confine di una cinta e immediatamente alle spalle della domus del comune, quasi a rimarcare il ruolo di superiore protezione esercitato dall’Impero sulla cittadina, che all’epoca risulta avere una sua parziale autonomia amministrativa (comune) pur dipendendo formalmente dall’autorità imperiale.
Quanto alle cinte presenti all’epoca, partendo da est, credo di poter riconoscere nel muro che forma il cortile interno di villa Duodo i resti del castello di S. Giorgio: non è però deducibile se da esso si dipartisse una (probabile) cinta in direzione del borgo a valle1. Un sistema di difesa attorno alla Chiesa di S. Martino nuovo (e poi del Duomo di Santa Giustina) dovette certo esistere, a protezione di un’ enclave di grande valenza sul piano simbolico, religioso, amministrativo: ne fa fede un disegno del 1603 (n.1) e labili tracce se ne riconoscono in tratti di muratura “romanica” al piede del presbiterio del Duomo e dell’ attuale canonica.
Testimonianze più consistenti sul lato sud, affacciato su Via S. Stefano. Non sono certo che di queste difese facessero parte anche i muri oggi con funzione di terrapieni (foto 2) sul retro di Cà Emo. A questo sistema si collegava probabilmente il muro lungo lo Scaloncino (molto antico in alcune sue parti)2 che a sua volta credo si prolungasse verso la casa Capodivacca: all’ interno di questa, prima dei recenti restauri ho potuto rilevare tracce di merlature nel muro a sud del corpo più antico. Tra la villa Nani e il castello Cini ci sono altre tracce di mura, probabilmente collegabili ad una torre oggi incorporata nella villa e riconosciuta durante i restauri condotti verso il 1970 (n.3). Un altro sistema va da Vicolo Mandiferro fino a via Palladio per poi scendere fino alla Loggetta (foto 5-6): esso forse si prolungava fino alla torre civica3. A nord, una linea di mura è riconoscibile presso S. Biagio (foto 4): anch’essa forse si concludeva presso la porta delle Navi e la torre civica, costituendo il limite nord dell’abitato. Sono infatti convinto che quando i francescani costruiscono il loro convento, nella seconda metà del Duecento questo dovesse trovarsi fuori le mura, come d’altronde anche il convento dei domenicani (S. Stefano), realizzato nei primi decenni del ‘300. Tutti i tratti di mura indicati non hanno tessiture omogenee, sono stati cioè realizzati in tempi successivi, non sempre determinabili esattamente (indico in viola i possibili tratti di cinte murarie ed in azzurro i probabili prolungamenti). Emerge la fisionomia di un centro che cresce a strati successivi, inglobando via via porzioni di abitato, mentre i tratti di mura obsoleti vengono spesso utilizzati per adossarvi nuove costruzioni (vedi il caso dell’attuale ufficio turistico le cui 4 arcate ogivali vengono ricavate nello spessore di vecchie mura, probabilmente nella seconda metà del ‘300, dopo la realizzazione della nuova cinta carrarese4).
Secolo XIV
Dal 1260 al 1310 Monselice entra nell’orbita del comune di Padova; tra il 1317 e il 1338 è scaligera, dal 1338 al 1405 è carrarese. Il dato politicamente significativo è che ora, per quanto il potere economico sia ancora in parte detenuto da enti spesso geograficamente assai distanti (monasteri), quello politico si è per così dire territorializzato: non promana da un ente universalistico e delocalizzato come l’Impero ma da una autorità prossima, che surroga le funzioni dell’ autorità imperiale. Non mi pare un caso, insomma, che solo adesso Monselice venga circondata da una cinta di mura che non solo ne amplia la superficie ad una dimensione molto maggiore di quella fin qui raggiunta, ma soprattutto lega in uno la realtà militare localizzata sul colle e quella civile e residenziale ai suoi piedi. La cinta carrarese (tavola 4) ha intanto la dimensione progettuale di un “piano regolatore”: includendo, in particolare a sud, ampie zone libere tende ad indirizzare lo sviluppo della cittadina. Dall’altro lato, ha un forte valore simbolico: ne sigilla la forma in un circuito perfetto e ne fissa l’identità come città murata.
La forza di questo segno è operante per secoli: dal sigillo trecentesco (n. 7) a questa mappa settecentesca (n. 8).
Secoli XV – XVIII
Dopo l’annessione a Venezia nel 1405, sulla base della tradizione politica della Serenissima informata ad un abile pragmatismo, a Monselice come entità amministrativa viene riconosciuta una sua pur limitata autonomia. Così anche i segni fisici del passato assetto vengono conservati, ma con opportune integrazioni e significative dismissioni. In questo molto noto disegno del 1741 (n. 9) si vede la situazione del centro civico a più di tre secoli dall’annessione: la gloriosa domus pubblica è ancora lì. Ora sede del podestà o pretore veneziano ha subito un radicale restyling secondo i modelli dell’architettura veneziana del primo Quattrocento. Nello stesso secolo viene realizzata la loggia grande a ridosso di S. Paolo, che se serve come luogo d’assemblea e per l’amministrazione della giustizia ordinaria, è anche il memoriale delle glorie veneziane con targhe e stemmi dei vari pretori. A ridosso della torre viene realizzata una seconda loggia minore, che insieme alla grande segna i confini della piazza. La stessa torre, nel corso del ‘500 viene privata delle merlature, innalzata degli attuali arconi e dotata di orologio, mutando dunque la sua connotazione da militare a civile. Benchè Venezia mantenga sul mastio un contingente militare, inizia una progressiva erosione delle strutture difensive medievali, che subirà un’ accelerazione dopo la disastrosa guerra di Cambrai. Il caso del castello, residenza imperiale e poi carrarese, è emblematico nella sua ambiguità: viene ceduto assieme alla vecchia gastaldia carrarese ai Marcello, viene cioè venduto ad un privato ma è perfetta la sovrapposizione tra la classe nobiliare cui appartengono i Marcello e la Repubblica, sicchè esso continua a trasmettere messaggi di autorità e potere che i Marcello si premurano di sottolineare nelle nuova ala realizzata verso la metà del ‘400, con una merlatura di sapore feudale 5.
In epoca veneziana (tavola 5) molti edifici vengono realizzati da famiglie nobili che posseggono terre attorno alla città: per esempio i Buzzacarini, i Santasofia padovani, i Pisani, Venier, Renier, Pasqualigo, Nani, Malipiero veneziani. L’immagine sintetizza i più rilevanti interventi realizzati a Monselice, con colori via via più scuri man mano che ci si avvicina alla fine della Repubblica (in grigio le costruzioni scomparse). Al di là della descrizione dei singoli edifici che talvolta sono rinnovi dell’esistente, altre sostituzioni, altre ancora nuove costruzioni, val la pena di osservare quanto avviene nella fascia a sud di Via del Pellegrino – Via Carboni, in una zona che all’epoca dell’addizione carrarese doveva essere completamente libera. Vi si nota la debole connotazione urbana del costruito, che in parte essa conserva tuttora, come conseguenza dell’ alternarsi di tipologie edilizie differenti. Dal palazzo porticato a filo strada come Cà Bertana o la Favarona, all’edificio a filo strada come Palazzo Olivetti o lo scomparso Palazzo Malipiero, alla villa arretrata come la scomparsa Renier o all’ edificio totalmente isolato come villa Venier.
In questo periodo l’intervento di gran lunga più significativo è la edificazione della villa Duodo, una realizzazione cui la famiglia attende ininterrottamente dalla fine del ‘500 a metà Ottocento quando l’ultima erede Elisabetta costruisce il marciapiede che dalla porta romana conduce alla villa. Bisogna dire subito che i Duodo sono i più grossi proprietari terrieri di Monselice e la loro sede tradisce il fatto sia con l’ampiezza della sua estensione che con gli impliciti significati simbolici connessi. Si tratta intanto di un’insolita tipologia dove alla classica villa destinata all’ “otium” si affianca una sorta di sacro monte dove, cioè, potere politico-economico e religione si uniscono inestricabilmente come tramiti di controllo sociale.
Nella nota stampa seicentesca (n.10) è evidente la trasfigurazione del paesaggio indotta dall’intervento dei Duodo: la natura (rappresentata dai regolari filari di cipressi) e la storia evocata dai ruderi delle fortificazioni si compongono lungo un articolato percorso che dal Duomo porta alla residenza, a dominio del borgo in basso. Urbanisticamente, lo slargo davanti alla villa dei Duodo si propone come termine di un eletto itinerario che partendo dalla piazza della città tocca gli edifici più rappresentativi dal punto di vista civile e religioso e quelli privati di altre prestigiose famiglie. Esso si propone come ideale trasfigurazione del disegno urbano, all’insegna della continuità tra presenza nobiliare e dominio politico, attraverso l’utilizzo di colti segni architettonici (tavola 6).
Secolo XIX
Nell’Ottocento, prima sotto il dominio asburgico, poi con l’annessione all’ Italia, Monselice è un centro a vocazione essenzialmente agricola, con una borghesia emergente in cerca di una propria nuova identità, di cui la costruzione del Teatro nel 1844 può essere considerato un simbolo. Ma si costruiscono anche un nuovo macello (1832) ed un nuovo ospedale (1837), si organizzano scuole, si lastricano strade, si illuminano le vie. Intanto, però, la città reclama una sua espansione e si avvia la liquidazione di alcuni dei segni che avevano marcato la figura della città antica (tavola 7): con la scusa di una irrecuperabile vetustà si demoliscono le porte S. Marco (1819), della pescheria (1825), S. Martino (1830), S. Antonio (1831); e nel 1820 l’attività estrattiva sulla Rocca inizia a erodere le mura sul lato nord del colle. Nella tavola, in rosso i tratti superstiti (anche frammentariamente) della cinta carrarese, in verde le demolizioni ottocentesche, in nero un tratto di cinta a sud già scomparso probabilmente sul finire del ‘700, in azzurro le porte cittadine scomparse). Nel 1831 si decide anche l’abbattimento della loggia grande a ridosso di S. Paolo. Il rilievo steso all’epoca (n.11) mostra il fronte dell’ antico edificio, accanto al progetto realizzato (nn. 12-13), che prevedeva spazi ad uso del Comune, con delle botteghe al piano terra. Nel corso dell’ ‘800 la costruzione venne poi rialzata di un piano come si vede nella foto 14.
Anche la piazza viene interessata, sul finire dell’Ottocento da un radicale riassetto. L’ acquerello in basso (n. 15) la mostra com’era attorno al 1860: si intravede sotto la torre civica l’antica loggetta veneziana, che verrà abbattuta nel 1890 per far posto ad una nuova loggia poi rimossa nel 1933; si vede pure sulla sinistra la fila di basse case e botteghe che la delimitavano, dandole la forma di un’ampia via piuttosto che di una piazza. Nella pianta sotto a sinistra (n.16) si vede la situazione dei luoghi prima delle demolizioni, con un secondo slargo a meridione destinato a piazza delle erbe. A destra invece (n.17) la situazione dopo l’abbattimento di alcuni edifici, con i due spazi unificati in una forma a L che la piazza tuttora conserva.
Secolo XIX
Sono qui riprodotte alcune immagini della Piazza riprese verso il 1930-40. In alto a sinistra (18) si nota l’antico palazzo pretorio, che già abbiamo visto rinnovato dai veneziani nel corso del ‘400, e che qui appare dopo l’ ulteriore restyling neogotico ottocentesco. Con uno sguardo più ampio, in alto a destra (19) vediamo la piazza sempre con il palazzo pretorio sullo sfondo e a fianco il municipio, a destra il palazzo Steiner edificato dopo le demolizioni del tardo Ottocento e bombardato poi durante la II guerra mondiale. La terza foto in basso (20) è a prima vista uguale, ma guardando attentamente si nota la sparizione del palazzo pretorio: siamo nei primi anni ’40 del ‘900 e il conte Cini, quasi a tardivo risarcimento alla città che ha arricchito i Giraldi prima poi lui stesso con l’escavazione della trachite, decide di restaurare l’antica e prestigiosa residenza federiciana, poi dei Marcello e dal 1843 dei Giraldi, ma allora in stato di abbandono. In accordo con l’amministrazione viene deciso l’abbattimento del palazzo pretorio per dare maggiore visibilità al castello. La decisione ha il valore di un primo decisivo passo verso la museificazione di quella parte che per secoli era stato il cuore della città: il castello, viene separato dal suo contesto e diventa un oggetto da fruire essenzialmente in modo estetico.
L’abbattimento del palazzo pretorio pone ben presto il problema della sede municipale, che privata dei locali lì alloggiati, risulta insufficiente. Già verso il 1940 l’amministrazione studia la possibilità di trasferirsi in una nuova costruzione da realizzare in piazza S. Marco (n.21). Anche a causa della guerra in corso non se ne fa nulla. Verso il 1960 viene presa la decisione di realizzare il nuovo municipio nella stessa zona ma utilizzando la villa Tortorini, opportunamente ampliata (foto 22). Nel 1966 avviene il trasferimento e la vecchia sede viene abbattuta. Quasi contemporaneamente anche la chiesa urbana, che era S. Paolo, trasloca nel nuovo Duomo sito presso il nuovo municipio (foto 23): tutto ciò non solo lascia la chiesa in vista priva di una vera e propria facciata ma consegna alla città un contenitore prestigioso rimasto senza funzioni. Queste due operazioni provocano un deciso riorientamento del centro cittadino svuotando la piazza dei significati che per secoli aveva veicolato.
A partire dagli anni ’70 del ‘900 molte ipotesi si susseguono circa il che fare della piazza e dei suoi monumenti. Nel dibattito intervengono l’ amministrazione ma pure privati cittadini come il compianto Aldo Businaro, con momenti anche di vivace confronto. Vengono banditi un concorso, senza esito, per la sistemazione esterna di S. Paolo (al n. 24 il progetto dell’ Arch. M. Petranzan) ed uno, realizzato, per la la sistemazione della piazza. Vengono restaurate la loggetta e la torre civica, si progetta, sempre senza esito, ad opera di Carlo Scarpa (n. 25 – 1976) la realizzazione di un’agenzia bancaria davanti a S. Paolo. Viene infine realizzato il progetto di Mario Botta (foto 26), che affronta il problema di misurarsi con la storia del sito, tuttavia a mio parere, risolvendolo con asettica correttezza e in forme corsivamente decorative nel caso della fontana.
Oggi
Le rapide note di questo testo, per quanto riguarda gli ultimi duecento anni, non hanno sottolineato a sufficienza la crescita urbana di Monselice, che è divenuta imponente a partire dalla seconda metà del ‘900. Quello che premeva descrivere era, semplificando, la costruzione nei secoli di una identità attraverso la creazione di luoghi e spazi dalla forte connotazione simbolica (piazze, chiese, edifici pubblici, case, le mura…) e la parziale liquidazione di questo patrimonio in tempi recenti. Se l’ abbattimento delle mura ne è la plastica dimostrazione, non è tuttavia la causa dell’indebolimento dell’ identità storica della città: l’espansione senza misura dell’abitato (che non ha più confini definiti) è problema che riguarda tutto il territorio veneto, e non solo.
Non sono mancati in anni recenti gli interventi da parte pubblica per il recupero di alcuni importanti “segni” del centro storico: San Paolo, san Biagio, Torre civica, Piazza Mazzini, le mura, il torrione…
Resta che Piazza Mazzini, quando non è occupata dal mercato o da qualche manifestazione, trasmette spesso una sensazione di vuoto e ha bisogno di essere ripensata sia nelle sue funzioni che nel suo arredo; rimane che non è risolto in modo vitale il collegamento tra il municipio e la stessa piazza e che il pur meritevole museo (come anche Villa Pisani) se ne sta in disparte in attesa di una più intensa partecipazione alla vita cittadina, che il solo turismo non gli può assicurare. Anche le mura attendono di essere adeguatamente valorizzate. Infine, i ruderi sulla Rocca sono stati in questi anni oggetto di interventi, spesso vivacemente contestati in città, ma anch’essi aspettano da troppo tempo di essere restituiti alla fruizione pubblica.
Si ringraziano per aver messo a disposizione materiale fotografico e documentario la Biblioteca comunale, con Flaviano Rossetto, Maurizio De Marco e lo Studio Bovo – Petranzan.
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