La produzione del cappero all’ombra della Rocca è una curiosa tradizione che affonda le proprie radici nel passato, tanto che vi dedica alcune righe anche Celso Carturan nella Storia di Monselice. Si tratta di una vera specialità locale, scriveva il Carturan nella prima metà del Novecento, una produzione rinomatissima e richiesta persino all’estero: I nostri capperi sono infatti dotati di una gustosità che invano si nota nelle consimili produzioni di altre qualità. Le piante di essi vegetano abbondanti nelle fessure delle vecchie mura e il raccolto viene effettuato nel tardo estate. L’autore evidenziava però come il commercio di capperi non fosse ben disciplinato e sviluppato nel pieno delle sue potenzialità: Un tentativo del genere venne fatto molti anni or sono dal Conte Marco Balbi Valier ma non ebbe buon seguito sicché qual commercio si manifesta tutt’ora in uno stato primitivo.
Tra coloro che portano avanti questa usanza, come prima di lui facevano suo padre e suo nonno, oggi c’è Giancarlo Bovo, custode dell’oratorio di San Giorgio. Il cappero è un piccolo arbusto coltivato fin dai tempi antichi e presente in tutta l’area mediterranea. In Italia uno dei luoghi in cui risulta maggiormente diffuso è l’isola di Pantelleria, dove sfrutta la terra di origine vulcanica. I capperi, ingredienti utilizzati in vari piatti della cucina siciliana, qui vengono conservati in sale marino. Invece a Monselice, in particolare lungo il percorso delle Sette Chiesette, questi arbusti sorgono in maniera spontanea sulle mura storiche, favoriti dalle caratteristiche della trachite. I loro semi, trasportati dal vento, si infilano nei pertugi e nelle crepe. Le piante necessitano di pochissima acqua (la pioggia è più che sufficiente) e non danneggiano le mura, perché crescono sulla parte esterna.
La fioritura parte a maggio: nello stesso periodo, spiega il custode, si cominciano a raccogliere i frutti, attività che prosegue fino ad agosto e a settembre. Dopo averli salati e lasciati riposare, si mettono in un barattolo con dell’aceto e, trascorsi 35-40 giorni, sono pronti per essere consumati. Se non si mangiano subito occorre cambiare l’aceto. In genere Giancarlo produce ogni anno circa 150 vasetti. Nel 2019, però, sarà presumibilmente costretto a fermarsi a una settantina. Il gran caldo e la proliferazione delle cimici, quest’ultimo un autentico flagello per numerose colture del nostro territorio, hanno infatti fortemente limitato la crescita dei capperi. Ciononostante la tradizione viene mantenuta in vita e questi arbusti continuano spontaneamente a ornare le mura storiche della strada che conduce alle Sette Chiesette, all’oratorio di San Giorgio e a villa Duodo. Quasi che la natura stessa volesse rendere omaggio a una delle passeggiate più suggestive del Veneto.
La presenza del cappero non è sfuggita al poeta Tonino Guerra ( 1920-2012) , che lo ricorda nella sua poesia “Porta romana “, nel settembre 1988:
Trachite seminata
ovunque
come sasso di Marecchia
sul colle veneto
stanno vedette
a vigilare
la storia
truce bastarda
di tempo passato
misericordia lontana
dove ancora Monselicis
porta romana
rammenta radici profonde
con l’odore di cappero
a primavera.
© A cura di Flaviano Rossetto – flaviano.rossetto@ossicella.it