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La leggenda dei mitici fondatori di Monselice e di Ossicella

Monselice, come ogni città che si rispetti, ha le sue leggende e le sue storia. Vere o inventate che siano fanno parte della nostra tradizione municipale. Ne presentiamo alcune, le più note, nella speranza che si trovi il coraggio di inventarne delle nuove, magari recuperando la tradizione orale ancora viva nei ricordi dei nostri vecchi. Quattro le leggende che raccontano la fondazione di Monselice: Ossicella, Eginia e Sarpedone, Gli Euganei e il principe etrusco Celio. 

Ossicella: il mitico fondatore di Monselice
Secondo una fortunata leggenda, la città di Monselice sarebbe stata fondata da Ossicella, un eroe troiano in fuga da quella sfortunata città. Gli storici patavini: Portinari, Bonifacio e Salomonio lo affermarono con certezza. Secondo loro Ossicella, Antenore (fondatore di Padova) e Ateste (fondatore di Este) approdarono sulle spiagge venete fuggendo da Troia, conquistata con l’inganno da Ulisse (cavallo di Troia). Anche Virgilio nell’ Eneide fa cenno ai nostri eroi e precisa che Antenore, era ricordato come amico, compagno e consigliere di Priamo. Egli era un uomo saggio e onesto, che consigliò ai suoi concittadini la restituzione di Elena. In fuga dalla città di Troia conquistata dai greci: Ossicella, Antenore e Ateste giunsero in Italia. Al termine di un lungo viaggio, con una imbarcazione di fortuna seguendo il fiume Brenta, i fuggiaschi arrivarono nella città di Padova. In questa città costruirono le mura e contribuirono ad edificare i primi edifici civili e religiosi. Dopo qualche anno Ossicella e Ateste, proseguirono il loro cammino verso i Colli Euganei con un gruppo di amici. Il viaggio fu purtroppo interrotto da una dura e drammatica guerra con gli Euganei che avevano un piccolo castello nei pressi della città di Abano Terme.

 

 

Ossicella, ferito negli scontri, riuscì a raggiungere la Rocca di Monselice e vi dimorò per molto tempo costruendo le prime mura, mentre Ateste trovò rifugio nella vicina città di Este. Ossicella è ricordato dallo storico greco Strabone che lo definisce così dotto da “insegnare la grammatica”. Una bella statua, opera dello scultore Pietro Danieletti, che ricorda il nostro mitico fondatore è collocata sul prato della Valle di Padova ed è stata fatta erigere dai cittadini di Monselice nel 1777.

In Prato Della Valle sono presenti attualmente 78 statue. La loro costruzione doveva rispettare dei precisi criteri: innanzitutto, non andavano rappresentate persone in vita né santi e i personaggi raffigurati dovevano avere tutti in un qualche modo un legame con la città di Padova. Nella foto di oggi possiamo osservare la statua N. 10 dedicata a Ossicella, storico fondatore della città di Monselice. La statua fu scolpita da Pietro Danieletti nel 1777 e fu commissionata dalla Città di Monselice. Ossicella, compagno di Antenore, è rappresentato con un vestito da guerriero troiano, con un’armatura leggera, elmo in testa e spada al fianco. Con la mano destra regge una lancia ed uno scudo sopra il quale è stesa una corda d’arco. La mano sinistra solleva il mantello

Secondo la tradizione, nella nostra regione si sono stabiliti anticamente (verso il 900 a. C.) i Veneti, popolazione proveniente, per via mare, dall’Asia Minore e precisamente dalla città di Paflagonia, che si era alleata con i troiani per difendere la loro capitale, Troia dall’attacco dei Greci. Non si sa in quale relazione fossero questi veneti con gli altri popoli, chiamati ugualmente veneti, distribuiti in tutta l’Europa antica: forse si trattava di una denominazione generica col significato di “conquistatori”. Numerosi scrittori greci e romani ci informano sulle attività di questi veneti che sarebbero stati i nostri antenati. In particolare da loro sappiamo che abitavano in casoni (capanne) di paglia e si dedicavano al commercio con gli Etruschi. Parlavano una lingua che oggi chiamiamo venetico.

 

Egina e Sarpedone

Una bella e romantica leggenda, recuperata dagli storici Ottocenteschi, attribuisce le origini della città di Monselice allo scontro tra Egina (regina della Rocca) e Sarpedone (re del Monte Ricco). Nella storia, raccontata da un anonimo poeta ottocentesco e raccolta da Celso Carturan, si descrive le vicende di Egina, grande amatrice e bella come una stella, esponente di una civiltà evoluta in guerra con Sarpedone rappresentante della rozzezza che “nel vicin Monte Ricco avea la sua dimora”. Egli era un gigante alto quasi tre metri e divorava animali vivi. Ma Eginia e Sarpedone non riuscirono accordarsi sul futuro della città e iniziarono una lunga guerra che si concluse con la morte di Sarpedone. La violenta conclusione della disputa monselicense rappresentò la vittoria della società organizzata nei confronti di quella primitiva. A confermare la leggenda, raccontano gli storici, fu la scoperta – avvenuta molti anni fa durante i lavori di scavo per un nuovo tratto di mura – di una scritta incisa direttamente nella roccia della Rocca che recitava: Hic Egina huius montis domina, mutilari fecit Sarpedonem, proximi rnontis dominum . (Traduzione: In questo luogo Egina, signora di questo monte, fece decapitare Sarpedone signore del monte vicino).
Il principe Francesco da Carrara lesse quella scritta e ordinò “che le ditte lettere fossero trascritte e date in copia a chiunque le volesse” e così io l’ho avuta in copia – commenta l’Ongarello – da Jacomo Magnaguagno cancelliere del comune di Monselice. Come e perchè – commenta lo storico Mazzarolli – si siano tirati in campo a Monselice due personaggi mitologici greci: Egina e il buon Sarpedone, corso dalla sua Licia a difendere Troia sotto le cui mura fa ucciso da Patroclo, non si riesce a comprendere anche perchè tra i due mitologici personaggi non vi fu relazione di sorta. Forse la leggenda è stata inventata da qualche cortigiano monselicense, traendo spunto dai colli della Rocca e del Monte Ricco, l’uno abitato e l’altro no, l’uno piccolo, l’altro tre volte più alto. L’aspetto così diverso sembra favorire l’accostamento della Rocca con la ninfa (Egina) e del Monte Ricco con lo sfortunato eroe (Sarpedone). Questa stessa leggenda è stata narrata anche dallo storico Angelo Main nel suo libro Montericco, disponibile presso la Biblioteca comunale. Il primo storico che ha pubblicato il primo opuscolo sulla nascita di Monselice è stato Angelo Main pubblicata nel libro “Montericco : dall’epoca antica alla medioevale”. Edito dal Gabinetto di Lettura di Monselice, 1936. Contiene la prima formulazione della leggenda dei mitici fondatori di Monselice “Egina e Sarpedone

Gli antichi Euganei

Una leggenda locale accenna che Monselice sia stato uno dei 34 castelli eretti dagli Euganei, il popolo greco che guidato da Pallo, figlio di Teseo, si insediò nei nostri Colli. Ai monti diedero il loro nome e fondarono la scomparsa città Euganea ai piedi del Monte Rosso

 

Il principe etrusco Celio

Una terza leggenda sostiene che Monselice sarebbe stata fondata dal principe etrusco Celio che, dopo aver fortificato la Rocca avrebbe propiziato il primitivo sviluppo della città. A sostenere tale ipotesi è stato lo storico padovano Scardeone che nel suo libro De antiquitate urbis Patavii (1560). Secondo Scardeone infatti l’origine del toponimo Monselice deriva dal “monte di Celio”.

 

Secondo la leggenda Celio sarebbe il principe etrusco Celio Vibenna che a sua volta sarebbe legato alle mitiche fondazioni di Roma. La città di Monselice ricordò questo mitico fondatore intitolandogli una viuzza nel centro cittadino. Altri sostengono che una lapide murata nel Torrione di Monselice la cui scritta ricorda una strada costruita (?) da Celio sarebbe una conferma della veridicità della leggenda. Ecco la scritta CF A OB HOMO VIAM STR.. Celius erexit arcem obuneam honoratus viam struxit (Celio edificò il castello e vi costruì una tortuosa via)

 

 

ALTRE LEGGENDE MONSELICENSI

Fate nella notte
Narrano i vecchi che all’incrocio delle crosare di Ca’ Oddo, qualche sera si aggiravano le fate della notte, che lavavano i panni dei viandanti in lavelli improvvisati e li stendevano ad asciugare fino all’alba, quando scomparivano ai primi raggi del sole. Si racconta che chi riusciva a vederle viveva fino a cent’anni

L’orco musso e gli scampi
A Cà Oddo di Monselice molto tempo fa c’era un orco, un personaggio cattivo che amava le metamorfosi più impensate. Si trasformava in mulo per distribuire calci ai passanti; in cavallo per rovinare i raccolti calpestandoli; in uomini vestiti di bianco per spaventare la gente di notte; in ombre per rincorrere gli sprovveduti passanti. Ma lo scherzo che preferiva consisteva nel trasformarsi in maiale. Ma appena l’ingenuo contadino tentava di rinchiuderlo nel suo porcile, l’agnello ( che in realtà era l’orco) si trasformava subito in una zucca, beffando amaramente il malcapitato. Una mattina un contadino vide in mezzo al suo “spagnaro” (prato di erba medica) un bell’agnello. L’uomo se lo mise sulle spalle e, felice e contento, si avviò verso casa. Camminando sentì l’agnello gravarlo sempre più ed esclamò: «Che pesante che te sì». Rispose l’agnello: «A so bèo e grasso ciò». Udendolo parlare, il contadino terrorizzato si scrollò di dosso l’animale e scappò a gambe levate: aveva incontrato l’orco! Raccontano i nostri vecchi che oltre all’orco musso a Ca’ Oddo di Monselice esistevamo degli Scampi che erano delle ombre che vivevano in mezzo al granoturco, al formentòn. Durante la notte uscivano dai campi di granoturco per spaventare i passanti o per rubare le giacche agli uomini. Spesso però facevano anche degli scherzi ai contadini che lavoravano sui campi sedendosi sopra le loro scarpe, facendole diventare pesantissime e impedendone il cammino.

Il Folletto Salvanello
Salvanello era un folletto di spirito, un po’ bonario e un po’ dispettoso, vestito di rosso e con i piedi di bue. Si divertiva a filare la lana sopra gli alberi. Una ragazza, che andava a pascolare le pecore, si incontrava spesso con lui. Salvanello allora la chiamava dicendole «Marina, vieni qui», mentre con gesto sgarbato lasciava cadere il fuso affinchè la pastorella lo raccattasse. Lei, ubbidiente, si chinava per prenderlo in mano, ma di colpo l’orco tirava su il fuso: voleva proprio abbindolarla. Poi, quasi pentito, raccoglieva pere e mele e le gettava alla fanciulla, invitandola a mangiare. Le giovani donne accoglievano l’invito, ma però dovevano ricordarsi di buttar via l’ultimo pezzettino del frutto, altrimenti sarebbero diventate anche loro come Salvanello.


© 2023 a cura di Flaviano Rossetto  per  https://www.ossicella.it/

Per la storia di Monselice vedi  https://www.monseliceantica.it/

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